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Doris Lessing, consapevole di essere donna

18 Novembre 2013
di Anna Maria Crispino

Quando nel 2007 le fu assegnato il Premio Nobel per la Letteratura – riconoscimento atteso da anni, sin dalla pubblicazione de Il taccuino d’oro (1962) – alcuni commentatori sostennero che il Premio arrivava troppo tardi: non solo perché Doris Lessing aveva 88 anni, ma perché le “tematiche femminili” che trattava erano ormai superate.  Anche quell’anno i pronostici più autorevoli indicavano tra i favoriti Philip Roth, come in questa edizione 2013 in cui il Nobel è andato a Alice Munro sollevando identici mugugni.  Ma per Doris Lessing il valore di quel Premio va ben al di là della motivazione della giuria di Stoccolma, e il tempo lo ha dimostrato. Lei non è stata infatti solo “la cantatrice epica delle esperienze femminili” ma una formidabile anticipatrice delle domande e delle inquietudini sui nodi problematici che il tormentato Novecento ha lasciato in eredità alle generazioni del terzo millennio: domande sull’identità, l’appartenenza e il rapporto con l’Altro – lei, nata nell’allora Persia, cresciuta fino a trent’anni nell’allora Rhodesia -,  sulla sinistra e sulla violenza, sulle relazioni tra donne e uomini, sul rapporto tra le generazioni indagato con il bisturi di precisione della scrittura nel farsi dello suo “stile tardo” (vedi Passaggi d’età, a cura di Crispino e Luongo, Iacobelli editore 2013). Basta scorrere l’elenco dei titoli delle sue oltre 50 opere, dall’autobiografia ai romanzi di ambientazione africana, dal ciclo di Martha Quest ai romanzi scritti sotto lo pseudonimo di Jane Somers, fino ai saggi raccolti in Le prigioni che abbiamo dentro. Cinque lezioni sulla libertà (minimum fax 2003). Il suo sguardo sul mondo è lucido fino alla spietatezza, la sua capacità introspettiva e retrospettiva, quella capacità che in altri campi abbiamo chiamato “partire da sé”,  dall’esperienza di stare ben salda nel trascorrere del suo tempo ma di ricorrere alla memoria e a volte di proiettarsi in un futuro fantascientifico,  “incarnano” la sua scrittura ad alto tasso di letterarietà.

Doris Lessing non parla “di donne”, parla “da donna” del mondo. E se la stampa rendendole omaggio certamente non mancherà di sottolineare la sua riluttanza a definirsi “femminista” –  per l’ormai radicata cattiva abitudine denigratoria che i media esercitano nell’usare il termine – non c’è dubbio che la sua opera rappresenti un monumento proprio alla profonda consapevolezza dell’essere donna e  del parlare (scrivere) e agire con l’assoluta libertà che questa consapevolezza comporta. E che si chiama femminismo. Non a caso, nel recensire il primo volume della sua autobiografia (Under my skin 1994, Sotto la pelle Feltrinelli 1998) Antonia Byatt scriveva: “Doris Lessing è la grande cronista della nostra storia di gruppo” (in Leggendaria, n. 66/2007), intendendo per “gruppo” sia la generazione adulta nel secondo dopoguerra sia le donne, scrittrici e non.

“Due occhi neri penetranti e indagatori incastonati in un volto sereno, i capelli grigi strettamente raccolti in due bande dietro la nuca”: così la descrive Maria Antonietta Saracino, eccellente traduttrice di molte sue opere. Ed era proprio così quando la incontrai una prima volta negli anni Ottanta, a Milano, a casa di Laura Lepetit , sua editora per L’erba canta e Gatti molto speciali: parlammo a lungo, in quella occasione, ma forse mi favorì solo perché ero tra le poche presenti a parlare correntemente l’inglese. Ne ho un ricordo vago, ero distratta dalla disinvoltura con cui indossava una maglia piena di patacche, mentre mangiava con gusto i piccoli rustici del buffet allestito in suo onore. Ero davanti ad una leggenda vivente e mi concentravo su quelle macchie e sulla pettinatura così antiquata, sulle rughe scavate del volto e l’assoluta mancanza di trucco e di civetteria. Forse ero intimorita, l’ascoltai più che interrogarla, e lei mi raccontò del viaggio, della sua impressione su Milano e dei suoi gatti. Di scrittura, di letteratura non volle parlare. Ebbi la sgradevole sensazione che fosse stata un’occasione persa, imperdonabile per una giornalista.

Qualche anno dopo la rincontrai una seconda volta, in una sede molto più formale. Avevo avuto il privilegio di essere invitata al seminario annuale del British Council a Cambridge sui Contemporary British Writers, un’iniziativa per mettere in contatto giornalisti di diversi paesi con scrittrici e scrittori, tra conferenze, chiacchiere e drinks. Lei era lì e questa volta le chiesi un’intervista. Se mi riconobbe, non lo diede a vedere. Ci appartammo, con il piccolo registratore tra noi due su un tavolino. La interrogai su Jane Somers, sull’incredibile scherzo che aveva fatto all’intero establishment editoriale mandando il romanzo agli editori sotto pseudonimo, sulla protagonista di quello straordinario romanzo che ritrae una cinquantenne che improvvisamente si accorge della vecchiaia incombente. Ma quando insistetti sulla relazione tra la protagonista, la vecchia che accudisce e la nipote – tre generazioni di donne colte nel loro divenire – mi rimproverò perché le facevo domande “femministe”: lei non era femminista, disse, le femministe pensano di poter fare a meno degli uomini, mentre il problema è la società, l’insufficienza dei servizi sociali che abbandonano i vecchi e i poveri, la mancanza di cura e di amore. Mi irritai. Pensai che forse era di cattivo umore, o forse aveva un brutto carattere, oppure che avessi sbagliato il modo di porle le domande. Ma, pensandoci a mente fredda nei giorni seguenti, la verità è che non tollerava l’essere etichettata – e negli anni Ottanta della signora Thatcher quell’etichetta di femminista era diventata molto pesante da portare. Ma che, soprattutto, come per molte altri scrittrici e molti altri scrittori, c’è spesso uno scarto tra le intenzioni dichiarate di un’opera e ciò che essa in realtà rivela alla lettura. Uno scarto che è un di più, una ricchezza. Ed è questo il bello  – o meglio “il dono”, come sostiene Saracino – della letteratura.

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