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Ballare contro la violenza. E poi?

23 Febbraio 2013

Il 14 febbraio scorso in tutto il mondo migliaia e migliaia di donne e molti uomini hanno ballato per reagire contro la violenza maschile sulle donne. Ne ha scritto su DeA Bia Sarasini, riportando i contenuti messi a base dell’iniziativa. In rete sono circolate anche opinioni diverse sul significato del ballo che si è moltiplicato in molte piazze italiane, ed è stato rilanciato anche dal palco del Festival di Sanremo e dalle parole di Luciana Litizzetto: “Se un uomo ti picchia non ti ama”.
Riportiamo una analisi critica del “Laboratorio Sguardi Sui Generis”, e due brevi diverse opinioni di uomini legati alla rete di Maschileplurale:

Danzare contro la violenza

Appunti di riflessione a cura del Laboratorio Sguardi Sui Generis

One billion rising: un flash mob globale per denunciare la violenza sulle
donne. Le ragioni, le parole d’ordine, le immagini e i luoghi della giornata
si trovano facilmente in rete. Con queste brevi riflessioni non vogliamo
approssimare un bilancio complessivo e globale della giornata e
dell’iniziativa. Al contrario, vogliamo provare a guardarla con il più
provinciale e provincializzato degli sguardi. Difficile stabilire
onestamente cosa One billion rising possa aver significato per molte donne
in tante parti del mondo. Più semplice – e forse utile – qualche
considerazione critica a partire da noi. La scelta di smorzare l’enfasi
globale di One billion rising per provare a descriverla in prospettiva
parziale e situata è motivata da alcuni elementi che riteniamo di prima
importanza.
Nel discorso pubblico la violenza sulle donne è descritta in prospettiva
globale soltanto quando la si prende in considerazione a partire da coloro
che la subiscono, mai per tratteggiare il profilo di coloro che la compiono:
le vittime di violenza sono le donne come corpus omogeneo, mentre i
perpetratori della violenza non sono mai raccontati come agglomerato
indifferenziato. L’asimmetria nasconde un duplice equivoco di natura
politica che è utile esplicitare. In primo luogo, la rappresentazione
essenzializzata della vittima (le donne tout court) è funzionale a una
descrizione della violenza completamente sganciata dalle forme relazionali
che l’accompagnano e dalle condizioni materiali che la favoriscono. Ciò fa
si che la generica condanna della violenza non si trasforma mai in una
critica reale della violenza che presupporrebbe l’analisi dei canali, delle
condizioni e dei luoghi attraverso cui la violenza si produce e si trasmette
ai danni di madri, mogli, fidanzate, nipoti, studentesse, e così via. Un
elenco orientato non a costituire una tassonomia vittimaria, ma piuttosto a
decostruire il significante donna come generico indifferenziato e,
soprattutto, dematerializzato.

Come accennato poco sopra, alla strategia di generalizzazione della vittima
che caratterizza la narrazione pubblica della violenza sulle donne non
corrisponde mai un carnefice generico speculare, identificabile nel sesso
maschile in quanto tale. Al contrario, nel discorso pubblico, colui che
perpetra la violenza non è presentato come semplicemente uomo, ma come
extracomunitario o, talvolta, come bianco deviante. La razza, infatti, è
senza dubbio l’elemento che maggiormente caratterizza la costruzione del
“carnefice”, sostituita all’occorrenza da una generica storia di devianza o,
in extremis, da un biografismo sensazionalista il cui effetto è quello di
imprimere il marchio dell’eccezionalità sulla violenza. Le storie di
migliaia di donne massacrate tra le mura di casa si trasformano così nelle
vicende personali di uomini ricostruite attraverso testimonianze
perfettamente accordate: “sembrava un uomo normale”. Inutile esplicitare
come nella logica spicciola della cronaca, “sembrare normale” significa non
esserlo. Senza neppure troppa inventiva l’eccezione è chiamata a sostituire
la norma e la violenza ricondotta alle caratteristiche individuali e
psicologiche di vittime e carnefici. Le tipologie relazionali e i rapporti
reali tra le parti in causa restano intonsi e lindi.
Dunque – con l’accesso alla sfera pubblica – la violenza di genere viene
caratterizzata attraverso due prospettive asimmetriche: come fatto
indistinto che riguarda tutte le donne, se osservato da prospettiva
femminile (o presunta tale); come fatto particolare stereotipato
generalmente su base razziale, se osservato da prospettiva maschile (o
presunta tale). L’effetto di questo schema rappresentativo è la rimozione
completa e radicale di ogni determinazione relazionale e materiale dei
rapporti di genere entro cui s’inscrive la violenza. Ciò fa si – e lo si è
detto – che la violenza di genere si trasformi in una sorta di costante
casuale, aleatoria e misteriosa della vita sociale. Qualcosa rispetto a cui
costruire forme di solidarietà globale e informazione, come si fa con virus
e malattie, mali alieni il cui controllo sfugge alla portata dei comuni
mortali. In tal senso, forse, la scelta di danzare contro la violenza
tradisce addirittura un’involontaria conferma dello schema analizzato. Una
danza, infatti, che assomiglia più a un esorcismo che non a una forma di
critica e di lotta.
Il secondo fattore di sospetto nei confronti di una danza globale contro la
violenza sta nel ragionevole dubbio contro quello che potremo definire una
sorta di “fattore anniversario”. Il civismo globale, infatti, impone
numerose “Giornate Mondiali” che prevedono forme di raccoglimento riflessivo
dell’opinione pubblica mondiale su temi differenti. Senza voler
necessariamente gettare in discredito assoluto questo genere di iniziative
(che pure mantiene un livello di problematicità elevatissimo, se non altro
perché generalmente orchestrate dal piccolo nord globale), vorremo suggerire
qualche spunto di riflessione.
Come ci ha insegnato Benjamin, tra la politica e i calendari c’è una
relazione stretta. L’idea è che, a differenza dell’orologio, il calendario
possa registrare delle discontinuità temporali che testimoniano una sorta di
densità variabile della storia. Molto semplicemente, non tutti i giorni sono
uguali perché, ogni tanto, può accadere qualcosa di significativo. Ma cosa
succede se – per così dire – i calendari si trasformano in orologi? Cosa
accade se, fuor di metafora, la capacità collettiva di agire si adatta
completamente ai ritmi della vita ordinaria e ai tempi del lavoro e della
famiglia, della produzione e della riproduzione? Dal nostro punto di vista,
l’effetto è un’assoluta inefficacia politica del fare collettivo proprio
perché non si dà alcuna sospensione delle condizioni materiali di cui è
intessuta la vita sociale. Si può combattere la violenza sulle donne senza
almeno provare a dissestare un poco i tempi e i luoghi della famiglia e del
lavoro? A ben vedere, infatti, la danza collettiva di One billion rising non
ha raggiunto neppure l’effetto straniante della festa collettiva. E’ stato
tutto sobrio, almeno nella sua versione all’italiana (non a caso
attraversata anzitutto da Se non ora quando che del civismo decoroso ne ha
fatto una bandiera). Tutto è sobrio, ben lontano anche solo dal minimo
effetto ironico e provocatorio: sobri il ballo, la musica, i movimenti e
l’abbigliamento. Sobri gli spazi e orari: la piazza centrale delle città e
la prima serata. Spazi e tempi ordinari, gli stessi che scandiscono
quotidianamente la rimozione della violenza. Se non è stata una rivoluzione,
non è stata neppure una festa. Niente, nulla: un appuntamento che nel
presentarsi sotto la veste dell’evento e dell’eccezionalità non fa che
confermare e rinsaldare lo status
quo.http://sguardisuigeneris.blogspot.it/2013/02/danzare-contro-la-violenza.html?spref=fb

Lorenzo Gasparrini
dalla sua pagina Facebook (pubblicato il 15 febbraio)

“Spero che ieri vi siate divertit* al 1BillionRising – ho letto, come succede spesso, opinioni contrastanti. Dico la mia, se non v’interessa passate al consiglio del giorno, che mi pare buono comunque 🙂
Quando, ormai 12 anni fa, la mia squadra vinse lo scudetto, festeggiai come un pazzo girando per la mia città. Ballai nella fontana di Piazza del Popolo fino a svuotarla, con amici e con gente sconosciuta. Sapevo benissimo che insieme a me c’erano folte rappresentanze della gente più orribile – fascisti, teppisti semplici, imbecilli tipicamente romani, etc. etc. – ma in quel momento mi serviva ballà. E l’ho fatto, senza credere, come poi il futuro mi avrebbe dimostrato, che da quel giorno la mia squadra sarebbe diventata un po’ meno piena De Stronzi.
Ieri ho visto – da fuori – le solite partecipazioni ambigue e le solite strumentalizzazioni. Ci saranno sempre, credo, ma se l’importante era far circolare l’energia, senza sperare inutilmente, credo sia andata benissimo così. La cronaca, semmai servisse, ha chiarito bene lo stato di cose.
Il consiglio è: serve riflettere E ballare. Serve la critica E lo sfogo. Serve illudersi E rendersi conto. Serve 50 E 50 – in tutte le cose.
Dàje.

Andrea Baglioni

Di mio aggiungo solo che il video (che è stato un elemento fondamentale di tutta l’operazione) non risponde affatto alla omogeneizzazione del femminile e all’occultamento del maschile che sguardisuigeneris gli rimprovera.
Di più: quella forza terrena che scuote e che porta a ballare non ha niente a che fare con la vittimizzazione femminile.
Lunga vita ad Eve Ensler, che sa fabbricare e lanciare sassi che tutti possono lanciare a loro volta.

 

 

 

 

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