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Non sono mai stata zitta. Intervista a Agnes Heller

22 Ottobre 2012
di Bia Sarasini

È una lunga vita quella della filosofa ungherese Agnes Heller, a Genova ieri per ricevere il premio internazionale Primo Levi. Ebrea, nata nel 1929 a Budapest, scampò ai campi di sterminio, dove invece morì suo padre, e si trovò a vivere nell’Ungheria trasformata in un paese comunista. Avrebbe voluto diventare una scienziata, l’ascolto occasionale di una lezione di György Lukács le cambiò la vita. Docente all’università, insieme al suo maestro e altri formò, dopo il 1956, la cosiddetta Scuola di Budapest, intellettuali dissidenti del regime. Poi seguirono l’abbandono del paese, l’Australia, poi gli Stati Uniti dove ha insegnato per 25 anni alla New School di New York nella cattedra che fu di Hanna Arendt. Ora vive prevalentemente a Budapest.

Che effetto le fa ricevere il premio “Primo Levi”?

«Emozionante. I suoi libri hanno un significato speciale per me. Mio padre era nel medesimo campo, morì di un’epidemia che lui descrive in “Se questo è un uomo”. È una relazione molto personale».

A quale età ha letto per la prima volta “Se questo è un uomo”?

«Non circolavano molti libri nell’Ungheria comunista. E Primo Levi non era certo il tipo di autore di cui il regime permetteva la traduzione. Negli anni sessanta ho avuto accesso ad alcuni libri che Lukács riceveva dal suo editore tedesco, autori come Habermas, o Norbert Elias. Anche Levi l’ho letto in quegli anni, in tedesco».

Nella sua vita lei ha vissuto due totalitarismi: nazismo, comunismo

«Sotto il nazismo, la vita era pericolosa perché ero ebrea, e sono sopravvissuta esclusivamente per caso. Come tutti quelli che sono sopravvissuti in Ungheria, dove sono stati uccisi mezzo milione di ebrei. Devo la mia vita al caso».

Sotto il comunismo è stato diverso?

«Non c’è stata una selezione che mi destinava alla morte, non sono stata perseguitata perché ero ebrea o ero una donna. La pressione totalitaria si è fatta sentire molto lentamente. Sono io che a un certo punto mi sono accorta che tutto era sbagliato, e ho cominciato a sviluppare opinioni, posizioni, concetti, ho iniziato a scrivere testi che non piacevano al regime. Cosi insieme ad altri sono stata accusata di essere anti-marxista, la massima colpa visto che il marxismo era la dottrina ufficiale per chiunque aveva posizione nelle istituzioni scientifiche. Rispetto al nazismo, una differente forma di negatività».

Insomma, il comunismo la perseguitò perché era un’attiva resistente?

«La cosa divertente era che mentre il partito ungherese mi considerava una pericolosa anti-marxista, per gli occidentali ero una filosofa marxista. Poi nel ’68 in molti protestammo contro l’occupazione della Cecoslovacchia da parte dell’esercito sovietico, insieme a quello ungherese. Una sfida politica contro il governo. Noi della scuola di Budapest fummo considerati nemici.

Quale è stato il cambiamento fondamentale della sua vita?

«Nel 1956, dopo la rivolta. Non ero contenta del mio silenzio, della mia paura. Mi dissi: non dirò mai più menzogne. Anche non dire quello che penso è mentire. Se tutto quello che vedi è totalmente falso, e tu non lo dici, anche tu sei corresponsabile. Così mi sono detta, non succederà più: qualunque cosa succeda dirò quello che penso. Lentamente, almeno nel gruppo degli amici, mi sono abituata ad abolire ogni forma di restrizione. Discutevamo tra noi di ogni tipo di questioni, di politica, liberamente. In seguito, quando ci tolsero tutto, e fummo costretti a vivere di traduzioni in nero, decidemmo di andarcene. Non solo per il denaro. Non volevamo far crescere i bambini in questo clima».

Se oggi guarda indietro al suo passato, cosa ricorda, come lo giudica?

«È molto difficile rispondere a questa domanda. I tempi erano pessimi. Ma se mi guardo indietro riconosco che ho avuto la fortuna di avere un maestro come Lukács. Ritrovo alcuni amici, pochi, ma con cui ho avuto un confronto serrato di idee molto buono. E in aggiunta a quei tempi ero una ragazza. E così non tutto è così brutto nella mia memoria».

Lei non ha buoni rapporti con l’attuale governo ungherese, presieduto da Viktor Orbán

«L’attuale governo non è democratico. Oggi in Ungheria diritti e libertà sono limitati. È stata soppressa la libertà di stampa. Giornali, tv, radio sono tutti controllati dalla stato. Purtroppo l’opposizione non è forte. Ci sono troppe idee diverse di società, e non ci si unisce».

Lei si fa sentire

«Sono quasi un nemico per questo governo. Continuo quello che ho fatto contro il regime comunista. Niente di nuovo. Non sto zitta. Ora corro meno rischi. Così parlo. Non da filosofa. Non uso il gergo dei filosofi quando parlo alla radio, in tv, o sui giornali. Parlo da cittadina. E la gente mi riconosce, mi ascolta. Mi dice, capisco tutto quando lei parla, grazie».

Come definirebbe oggi la sua filosofia?

«In passato ho amato il Marx utopico. Da bambina ho visto l’inferno da vicino. È ovvio che la promessa del paradiso mi ha attratto molto. Poi non ho scelto un altro campo, un altro ismo. Nella modernità non è più tempo delle scuole. Non è possibile, sarebbe ridicolo. Io sono Agnes Heller, ho il mio stile. E negli ultimi vent’anni ho scritto di bellezza, etica, Shakespeare. La cosa curiosa è che nel rileggere i miei primi lavori ho scoperto che i temi c’erano tutti. Ora li ho portati al centro»

 

Pubblicato su Il Secolo XIX, 20 ottobre 2012

 

 

 

 

 

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