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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Cura e lavoro: il silenzio maschile

5 Marzo 2012
di Alberto Leiss

La crisi ha rimesso al centro dell’attenzione della politica e dell’esperienza quotidiana il problema del lavoro e quello del welfare: l’indebitamento pubblico e la mancanza di risorse, il prevalere di una cultura che resta prigioniera di logiche sostanzialmente liberiste sembrano produrre una sorta di strada senza uscita. Con l’unica prospettiva di un ulteriore aggravamento della condizione di chi lavora con meno diritti, ammesso che l’impiego ci sia, di chi sta più a lungo in pensione –in particolare le donne con la riforma Fornero – di chi ha meno servizi e aiuti per fronteggiare le esigenze delle famiglie e delle convivenze: figli da allevare, genitori da accudire.

Come in altri momenti di profonda trasformazione sociale oggi viene dal femminismo italiano e da diversi soggetti femminili una lettura critica del nesso tra lavoro e vita che apre prospettive nuove e diverse.

Lo ha detto Maria Luisa Boccia intervenendo al convegno milanese “Cura/lavoro. La rivoluzione possibile” dove si sono confrontate donne con alle spalle anni di elaborazione sui mutamenti del lavoro dovuti alla femminilizzazione e una recente rilettura del tema della “cura”: una disposizione femminile che il femminismo ha criticato storicamente in quanto ruolo imposto dalla struttura patriarcale, ma che oggi – essendo rimasto comunque radicato anche nell’esperienza di donne con un forte senso della propria libertà e autonomia – viene riconosciuto e rovesciato quale punto di vista, dispositivo simbolico capace di offrire una leva di radicale trasformazione.

Nella pratica della cura si produce infatti – per Boccia e per il documento “La cura del vivere” – un “resto” che nessun lavoro e nessun welfare può colmare. Il mondo non si regge in realtà solo su “produzione di ricchezza e su rapporti di potere” ma anche e soprattutto sulla pratica relazionale della cura, che da funzione oblativa e subalterna può divenire “una leva per contendere il comando sulle vite” nell’epoca di una “biopolitica” che domina a livello globale.

Nella sala dell’”Unione femminile” in cui si è svolto il convegno troneggiava sullo sfondo un vecchio pianoforte a coda. La cosa mi ha ricordato la bella espressione di Pavel Florenskij sul ruolo dei nomi e delle parole: “il linguaggio della parola articolata è un mezzo universale, il pianoforte a coda degli strumenti dello spirito”. E ancora una definizione del simbolo come “realtà che è più di se stessa”.

Ora la parola “cura” ha una ricca tastiera di significati – guarire, preoccuparsi, soccorrere, allevare, disporre con attenzione, difendere ecc. – che possono agire come leva simbolica efficace in una situazione di grave crisi non solo economica ma anche culturale e di senso.  Una situazione in cui strutture fondamentali del vivere – dalla politica alla formazione, dalla chiesa alla famiglia, dall’economia alla cultura, dai rapporti tra generazioni a quelli tra i sessi – sembrano soffrire di una generale crisi, degli effetti negativi di una “incuria” della quale è sempre più evidente la matrice essenzialmente maschile.

Il convegno milanese è stato una tappa importante lungo un dibattito cresciuto con grande ricchezza lungo alcuni mesi e in alcuni luoghi: la Libera università delle donne di Milano, la Libreria delle donne, il gruppo romano del mercoledì, le riunioni mensili a Milano dell’Agorà del lavoro.

Naturalmente tra queste voci femminili ci sono differenze anche non piccole. Ma il discorso è accomunato – mi pare – dall’idea che oggi il punto di vista delle donne e del femminismo abbia la forza di indicare una via di trasformazione che parla a donne e uomini e a tutta la politica.

C’è chi, come Giordana Masotto (intervento sul sito Zeroviolenzadonne) respinge l’idea stessa della cura come “resto” irriducibile alla mera dimensione del lavoro o del welfare: “separata dal lavoro e dalla necessità, dunque dal tempo, dall’economia, la cura può diventare semplicemente banale”. Un attrezzo politico-simbolico dunque controproducente.

A me sembra invece che proprio il riconoscimento del desiderio che porta le donne – e mi auguro sempre più uomini – a tenere insieme, per esempio, cura dei figli e interesse per il lavoro (il “doppio sì”), e in genere per un lavoro fatto bene (con “cura”, appunto, per il prodotto o servizio che si produce e per il suo senso per sé e per gli altri) costituisca la leva per una trasformazione profonda del nesso tra lavoro e vita e anche per una piena acquisizione di una diversa concezione del tempo.

Lo ha detto a Milano Sandra Bonfiglioli evocando le figure di “cronos”, un tempo maschile rigido fatto di obblighi competitivi sul terreno della produzione staccata dalla vita, e di un’idea astratta del rapporto tra passato, presente e futuro, mentre dalle donne viene “kairos”, il tempo delle occasioni, delle circostanze favorevoli e della realtà vitale del presente.

E’ dalla spinta alla rottura delle attuali rigidità tra vita e lavoro che si è sviluppata, nelle ultime riunioni dell’Agorà, una discussione sulla contrattazione e sulla negoziazione. Sul secondo dei due termini si è visto un significato di maggiore intensità e soggettività. Come dare forza alla contrattazione e negoziazione individuale? Come assicurarla in forme collettive? E’ possibile trasformare una pratica del sindacato considerata gravemente insufficiente? Lia Cigarini ha ripetuto che l’Agorà stessa è il luogo pensato per costruire questa forza, per elaborare nuove “figure dello scambio” efficaci, come lo sono state quelle costruite nel tempo dagli uomini.

E qui vengo all’ultima riflessione, per me centrale. Queste “figure della scambio” elaborate dal maschile – penso per esempio al legame maestro-discepolo nell’accademia, nella politica, o all’idea di conflitto sociale praticata dal sindacato ancorata alla “coscienza di classe” – sono in realtà entrate in una crisi irreversibile. Ho letto un titolo di giornale in cui si evocava una soluzione “tecnica” anche per sbloccare il papato in declino di Benedetto XVI!

Gli uomini sarebbero dunque vitalmente interessati a partecipare a questa ricerca per elaborare finalmente pratiche politiche realmente comuni con le donne. Ma resta finora un sostanziale silenzio e una sordità: un primo compito per quelli di noi che cercano di ascoltare e di riconoscere queste parole nuove è quindi indagarne il perché. Silenzio e sordità appaiono particolarmente gravi a sinistra in un momento di interventi governativi decisivi sul terreno economico e sociale. C’è anche caso che le imprese capiscano alla fine per prime l’esigenza di intervenire per assicurare condizioni di vita migliori nelle aziende nonostante la crisi e la compressione dei salari, favorendo forme di welfare “privato” che incentivino anche l’occupazione femminile, non senza il rischio di nuovi paternalismi.

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