La difficoltà a riconoscere che un movimento di donne possa avere al proprio interno condivisioni e divergenze, conflitti che non diventano necessariamente spaccature, unità di percorso e scelte occasionalmente diverse, rientra nel pregiudizio, ancora largamente diffuso tra le donne stesse, che le vorrebbe come un tutto omogeneo -un genere, un sesso- e non delle persone.
E’ vero che le manifestazioni di piazza, per riuscire, devono essere il più possibile unitarie, ma questa non è una buona ragione per passare sotto silenzio il fatto che all’appello di “Se non ora quando?” nazionale per la mobilitazione dell’11 dicembre non c’è stata, da parte dei comitati di alcune città e regioni, la risposta unanime che ci si attendeva. Eppure le lettere inviate alle organizzatrici dai comitati Snoq di Milano, Bologna, Napoli, Lombardia e Marche, per esprimere perplessità o dissenso rispetto all’iniziativa, contenevano argomenti degni di attenzione:
-il richiamo alla “territorialità e alla capillare diffusione” di Snoq in tutto il paese come elemento di forza, visibilità mediatica, rappresentazione delle “diverse e molteplici sfaccettature” di un movimento che vede insieme femministe storiche, donne delle istituzioni e giovani generazioni (Lettera Snoq Milano);
-l’impegno preso a Siena e ribadito nell’assemblea romana del 2 ottobre 2011 a “ scendere di nuovo in piazza solo a partire dall’elaborazione di una proposta politica delle donne” sui grandi temi del lavoro, welfare, salute, rappresentanza, violenza, rappresentazione mediatica delle donne, ecc.
Si può obiettare che nel frattempo la storia è andata avanti -la caduta di Silvio Berlusconi, la manovra anticrisi del governo Monti-, come sempre “contro” di noi e “senza” di noi, per cui occorreva dare un segnale. Ma la felice risposta “ora”, “adesso”, che il 13 febbraio 2011 è stata il detonatore di un’indignazione dagli aspetti più diversi, non ha la stessa valenza quando, come si legge nella Lettera dei comitati della Toscana, “ognuna nel proprio territorio sta faticosamente, ma pervicacemente, allacciando relazioni, rafforzando quelle che già esistevano, mobilitando le proprie forze” per costruire un’agenda di contenuti più condivisa possibile.
A molti comitati non sono piaciuti i tempi e le modalità dell’appello, la semplificazione degli slogan proprio quando è in atto un lavoro di approfondimento, la fretta che inevitabilmente accentra la visibilità su figure note ai media, lasciando in ombra l’aspetto innovativo di un movimento che tenta per la prima volta di darsi forme organizzative rispondenti alla complessità del tema che affronta: un potere che si è confuso coi rapporti più intimi e che ancora gode della complicità involontaria di chi ne ha portato il maggior peso. Dopo oltre un secolo di battaglie di emancipazione e pratiche liberatorie da modelli di femminilità e maschilità interiorizzati, fatti passare come “naturali”, non basta dire “ci siamo” e vogliamo contare”, perché il rischio è di confermare l’ambiguità che si tratti ancora una volta di uno svantaggio delle donne da colmare o di una preziosa risorsa salvifica femminile da valorizzare.
L’obiettivo del “50 e 50ovunque si decide”, che si era già imposto con la grande manifestazione di Usciamo dal silenzio nel gennaio 2006, e che abbiamo visto concretizzarsi nelle recenti elezioni comunali milanesi, è stato chiaro fin dall’inizio che non doveva essere inteso come “quota rosa”o rappresentanza di genere, ma come “principio elementare di civiltà”, svelamento della cultura sessista che ha riservato all’uomo il governo della cosa pubblica, un privilegio che persiste al di là dei diritti e delle leggi di parità.
I comitati Snoq, per il loro carattere composito, fanno sperare che si possa uscire dalla contrapposizione che ha segnato finora nelle sue varie fasi il movimento delle donne, tra emancipazione e liberazione, così come c’è da augurarsi che la priorità data alla definizione di un’agenda politica, fatta di obiettivi e proposte specifiche, non significhi la presa di distanza dalla cultura prodotta da quarant’anni di femminismo intorno alle ragioni profonde della vicenda dei sessi, o il rifiuto di una elaborazione che ha bisogno di tempi propri, non sempre e necessariamente al passo con l’incalzare degli eventi. Se possiamo oggi guardare oltre il “dilemma uguaglianza/differenza”, oltre il riconoscimento del destino di “genere” riservato alle donne, oltre la complementarità ingannevole dei ruoli sessuali del maschile e del femminile, è per la consapevolezza e per il sapere che sono venuti dalla pratica anomala dell’autocoscienza.
Quando ci troveremo ad affrontare nello specifico i temi del lavoro, del corpo, della rappresentanza, della violenza maschile contro le donne, dell’immagine della donna nei media, dell’omofobia, non mancheranno difficoltà tra chi persegue il miglioramento della condizione femminile, una conciliazione meno gravosa per le donne tra famiglia e lavoro, il riconoscimento del valore sociale della maternità, e chi pensa che il nodo cruciale della permanente marginalizzazione delle donne sia proprio la divisione tra il ruolo pubblico (maschile) e quello privato (femminile), e, più a monte, il capovolgimento originario che ha subordinato, svalutandone l’essenzialità, la conservazione della vita alla produttività, la realizzazione dell’umano alla feticizzazione degli oggetti, l’amore del denaro alla cura delle relazioni.
Perseguire obiettivi parziali, mete realizzabili nell’immediato, non dovrebbe impedire di muoversi su un orizzonte più ampio, come è quello di una crisi che segnala il limite di un modello di sviluppo, ma anche il fondamento di una civiltà maschile che ha preteso di asservire all’onnipotenza del pensiero la condizione materiale prima dell’esistenza: il corpo, la natura, le funzioni necessarie alla riproduzione della vita, il benessere psichico, fisico e mentale di ciascun essere umano. Sarebbe davvero un paradosso che il movimento che ha preteso di spingere la politica “alle radici dell’umano”, a sporgersi verso tutto ciò che ha rimosso e considerato altro da sé, si limitasse oggi a farsi “valore aggiunto”, forza integrante di un sistema in declino. In sostanza: più realista del re.