Lavoro di cura: destino o nuova politica?

22 Novembre 2011
Recensione su "Gli Altri" del 4 novembre 2011
di Irene Strazzeri

Ancor oggi, nell’epoca della riproducibilità tecnica della vita umana, della commistione e della con-fusione delle sessualità, il corpo delle donne resta il luogo cui è prevalentemente affidata la cura del vivere, quantomeno a livello di immaginario diffuso. Un riconoscimento che si deposita e si tramanda a partire dalla relazione atavica tra la nuova vita e la madre. In tale relazione si intersecano fattori di ordine biologico, sociale e culturale. Il corpo delle donne garantisce la riproduzione della specie, la maturazione di un sé unico e irripetibile, la trasmissione della cultura. Il numero di Leggendaria dedicato alla cura del vivere pone e ripropone il ripensamento di questioni radicali: libertà, uguaglianza, diversità alla luce dell’evoluzione, che sicuramente si è avuta, nella relazione tra femminile e cura, alla pluralizzazione delle interpretazioni del poter-essere-donna che certamente non si esauriscono nelle attività di cura.
Se da un lato il femminile si è esteso ad una molteplicità di arricchimenti identitari (Elena Pulcini), dall’altro l’abbraccio della madre -come suggerisce la stessa copertina del numero- lo evoca ancora. Il femminile si è svincolato dall’esclusività del compito della cura e tuttavia non rinnega tale prerogativa (Eleonora Mineo). La conserva e la affina, la moltiplica e la dirige verso situazione in cui troppo a lungo è mancata (Fulvia Bandoli).
Le pratiche femministe hanno trasposto il significato della cura dalle dinamiche sociali e culturali proprie del modello occidentale (Bia Sarasini), prettamente coincidenti con la cura dell’altro, all’emergenza relativamente recente, della cura come “potere/piacere” di dedicarsi a sé (Liliana Moro).
Insomma l’immagine della cattiva moglie o cattiva madre, che etichettava la ribellione femminile al destino della cura dell’altro sembra essersi polverizzata. Il riscatto dello spazio e del tempo per sé è oggi “lo scarto” (Elettra Deiana), socialmente, storicamente e culturalmente prodotto, da cui dipende la possibilità stessa di una rifunzionalizzazione critica della propria capacità di cura. Lo scarto è dato dallo spazio, dal tempo, dalla sospensione che ormai intercorre tra ruolo personale e ruolo sociale (Antonella Picchio).
E tuttavia è sembrato che il percorso politico dell’emancipazione femminile, dal voto alle donne al loro ingresso nel mercato del lavoro, alle conquiste civili (Lea Meandri) rappresentasse un recupero delle risorse di senso necessarie all’aver cura dell’immagine di sé delle donne per sottrazione di legittimità, simbolica e materiale, al modello della cura dell’altro, cristallizzato su una rigida divisione sessuale del lavoro (Lorenza Zanuso). A ben guardare l’investimento che le donne hanno fatto su se stesse consente, nelle attuali e sconcertanti condizioni economico-sociali, di ritrovare nella qualità delle relazioni la radice più vera della politica (Alberto Leiss), delle relazioni tra i sessi (Guido Viale), delle relazioni con il vivente (Rosetta Stella), con il mondo (Bianca Pomeranzi).
L’esito dell’investimento su se stesse che hanno compiuto le donne si traduce in una profonda trasformazione degli equilibri nelle rappresentazioni delle relazioni tra i membri di una società (Laura Storti), dalla rappresentazione della famiglia alla rappresentazione delle professioni (Laura Gallucci) a nuovi modelli di riferimento per gli uomini. Tutto ciò rende la cura indivisibile dalle inedite forme di autorappresentazione e autodeterminazione che le donne oggi mettono al mondo. A me pare che solo a partire dal loro desiderio, dalla loro conquistata capacità di performare liberamente la sessualità,  dalla biografia che si incarna nel loro corpo, persino dalla sensazione di benessere che deriva nel trovarsi dinanzi allo specchio possa oggi riaprirsi il compito, mai semplice, della cura del vivere. Il disvelamento della naturalizzazione della cura, la decostruzione della “natura” artificializzata della donna non passa inosservata.
Questo è certo. Ma lungo il crinale dei rapporti tra natura e cultura deve incunearsi l’incerta cuspide di un’autocomprensione sessuata di sé, che nulla può più concedere a vecchi e obsoleti sistemi di potere. La linea di confine tra natura e cultura e di spostamento da quel confine si gioca oggi nella singolarità esistenziale di ogni donna, che di volta di volta e contestualmente scopre nella “cura di sé attraverso la cura del vivere” potenziali di autorealizzazione.
La specificità della cura non coincide più con la specificità delle donne, dunque, ma con il ripensamento collettivo di un’istanza di libertà da tutte le logiche del dominio. La cura è una traccia dell’essere donna che si offre come coscienza collettiva, ad ampliamento delle possibilità soggettive, di ognuna e di ognuno, di comprendere il mondo. E’ un ri-trovarsi al femminile nella promozione di un pensiero e di una pratica, capace di trasformare rapporti di forza in libere relazioni. E’comunicazione, resistenza, denuncia. E’ un ritrovarsi al femminile come opportunità per il mondo.

 

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