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Ribellarsi non è più giusto?

8 Maggio 2011
di Letizia Paolozzi

Ho letto l’altro giorno un’agenzia che recitava in quattro righe: A Catania un uomo di 38 anni è stato trovato dai vigili del fuoco in un’auto in fondo al mare. Era disoccupato e aveva annunciato sul social network Facebook l’intenzione di togliersi la vita.
La scomparsa l’aveva denunciata dieci giorni prima la sua famiglia. Pure la trasmissione televisiva di Raitre “Chi l’ha visto?” aveva segnalato il caso. Il suicida (il cui nome era indicato con le maiuscole puntate) pare fosse rimasto senza lavoro dopo il licenziamento in un supermercato.
Dunque un uomo che si avviava a diventare disoccupato. A meno che non fosse “semplicemente” depresso. Scoraggiato all’idea della ricerca di una nuova occupazione, alla sua età, in una Sicilia dove avere il posto il lavoro è una meta più lontana che da altre parti d’Italia.
Anche se succede in tutta Italia che la crisi e la precarietà siano in agguato dietro l’angolo. E le opposizioni? Beh, ci sono le battaglie (inconcludenti) parlamentari; le manifestazioni studentesche; la partecipazione alle manifestazioni dei centri sociali. La capacità di reazione del sindacato. E’ dell’altro giorno lo sciopero generale Cgil. Adesione consistente. Ma non ha mosso passioni. Emanuele Macaluso sul “Riformista” ha parlato di “distrazione, indifferenza, routine” per i temi posti al centro dello sciopero.
Di qui, forse, la violenza rivolta contro se stesso da un disoccupato oppure da un detenuto (uno dei tanti che si tolgono la vita, ricordati solo dai Radicali) che viene inghiottita assieme all’annuncio su Internet, alla segnalazione nelle trasmissioni di successo.
Ora, se a Catania un uomo di 38 anni l’hanno ritrovato in fondo al mare, in Tunisia si è immolato con il fuoco il venditore ambulante Mohamed Bouazizi, laureato tunisino al quale la polizia aveva sequestrato la mercanzia, un carretto di frutta e verdura. La sua morte però ha innescato una scintilla e poi un incendio: la cacciata di Ben Alì, la “rivoluzione dei gelsomini”.
Con quel suicidio “giustizia è stata fatta”. Prima dell’attacco dei Navy Seals alla villa di Abbottabad. Prima che Osama Bin Laden fosse dichiarato morto dal presidente degli Stati Uniti. Prima che tutti si affrettassero ad assicurarci che la nebulosa di Al-Qaeda era già da tempo indebolita.
Brusco, inaspettato risveglio: abbiamo scoperto che i paesi arabi, ritenuti immobili, incapaci di uscire dalla loro condizione, vogliono il cambiamento. Il messaggio simbolico rappresentato dalla fine del venditore ambulante ha portato all’esplosione della “primavera araba”.
Sono due suicidi. Ma cosa hanno in comune la storia di Mohamed Bouazizi e dell’uomo senza nome? Sù, Berlusconi non è Ben Alì. Diversa la struttura sociale, diversi i governi. Eppure, dobbiamo cercare di capire perché in questo nostro Paese non faccia più problema la vita (disgraziata) degli altri.
Certo, pesa il sentirsi declassati; l’amalgama con la paura (rancorosa, la definirebbe Aldo Bonomi) dell’”invasione” degli immigrati. E’ questo che spoliticizza lo spazio politico mentre si afflosciano le idee di trasformazione sociale.

Un uomo è un essere sociale, sempre che abbia spazio per le relazioni, per tentare forme nuove e nuovi tempi di vita. Se non trova una dimensione simbolica del cambiamento – e qualcuno deve pure dargliela – il suicidio viene rubricato come atto eclatante individuale che non merita più di una modesta notizia.

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