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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Giustizia è fatta, ma non brindiamo

7 Maggio 2011
di Elettra Deiana

Ora si deve brindare, scrisse il poeta Orazio, sulla scorta di una plurisecolare tradizione di guerra. “Nunc bibendum est”, per celebrare la morte del nemico.
Bin Laden è stato messo a morte in Pakistan, nel corso di un’operazione delle forze speciali statunitensi attivamente voluta e sostenuta dalla Casa Bianca e di cui le autorità pakistane non sapevano nulla. Alleato degli Usa sì, quel Paese asiatico, ma infido.
Sembra anche che il capo di al Qaeda fosse disarmato e quindi potesse essere facilmente catturato anziché ammazzato.
Tutto questo è avvenuto mentre dura la stagione delle rivolte arabe contro tiranni e despoti di tutte le risme. Sono rivolte, è stato giustamente sottolineato da molti osservatori e osservatrici, animate da una larga partecipazione popolare, dalla forza di nuove soggettività giovanili, di soggetti che sfuggono largamente ai fantasmi dell’integralismo fondamentalista e cercano, nell’azione condivisa, la strada della libertà e della dignità di cittadini.
Sarà però un percorso lungo, complicato e contraddittorio. I segnali delle difficoltà sono già visibili. Gli eventuali nuovi errori dei Paesi occidentali, alcuni già in atto, cumulati a quelli del passato coloniale dell’Europa, potranno pesare in un senso o nell’altro. Come sempre avviene, perché le cose stanno insieme. Mai come oggi.
E se lo storico discorso che Obama pronunciò all’Università del Cairo, nel 2009, così coinvolgente per il mondo arabo, ha avuto sicuramente la sua parte nell’incoraggiare la mobilitazione dei giovani di quei Paesi, altrettanta potranno averne a depotenziare quella fascinazione altre scelte, altri discorsi provenienti dagli Stati Uniti. E i retroscena delle scelte.
Ci sono sempre i retroscena in politica, soprattutto quando la politica è mossa dai grandi poteri, ne è espressione diretta, e il potere è di quelli con cui non si scherza.
L’esecuzione di Osama Bin Laden è avvenuta quasi in diretta e ha goduto di uno straordinario impatto mediatico su scala globale. Ma nello stesso tempo è stata costruita passo passo di nascosto, nell’oscurità delle trame segrete, come operazione segreta e da secretare, con un retroscena politico-militare pieno di zone d’ombra, che sollevano interrogativi di varia natura. Già se ne può leggere abbondantemente qua e là sulla stampa.
Ma raramente come in questo caso vale la pena di lasciare da parte i retroscena e stare invece radicalmente alla scena, perché è là che si rappresenta e si consuma il significato più autentico di quello che è avvenuto e perché è da là che potranno svilupparsi gli esiti in un senso o nell’altro dell’intera vicenda.
Si è consumata di nuovo sulla scena globale la rappresentazione della morte del nemico, col contorno paradigmatico dell’eccezionalità eroica dell’evento e l’annuncio enfatico della morte. Siamo come di fronte alla catastrofe di una moderna tragedia. Tragedia americana. Si consuma anche inevitabilmente, sulla scena del mondo, quel che inevitabilmente segue un tale annuncio: l’esultanza del Paese colpito, una New York rimasta in veglia durante tutta la notte a festeggiare.
Festa un po’ in agrodolce, segnata ancora fortemente dalla memoria di quel dramma e da tutto quello che ne è seguito, come dicono i più attenti conoscitori di quella grande, straordinaria città. E tuttavia festa.
I riti di guerra, quelli che precedono la guerra, e poi quelli che l’accompagnano e infine quelli che la seguono, rappresentano l’aspetto più oscuro e inquietante della guerra stessa. Perché hanno il potere di attivare potenti dispositivi mentali e psicologici di adattamento, di contenimento dell’angoscia, di proiezione eroica dell’ansia.
Così i riti entrano nell’immaginario collettivo e nel cuore di ognuno di noi, rendendo compatibili gli orrori della guerra con l’umano sentire e il patire e il compatire di uomini e donne di fronte al dolore dell’ “altro”. Esorcizzazione della paura, rimozione dell’orrore, elaborazione del lutto. E talvolta riconferma dell’essere dalla parte giusta, da quella che il tuo dio sempre benedice e sostiene.
“Vivo o morto”, gridò il presidente George W. Bush all’indomani dell’11 settembre. Ed era un’incitazione di vendetta, anch’essa un rito di guerra.
Quel “Justice has been done”, con cui il presidente Barak Obama ha annunciato al suo Paese la morte del nemico pubblico numero uno, ne ricalca le orme. Dobbiamo dirlo. E’ un annuncio dal sapore americano al cento per cento, porta in tutto e per tutto il segno della storia di quel Paese, della retorica che ne ha caratterizzato la vicenda, dello spirito di frontiera che l’ha animata, della supponenza da grande potenza che l’ha guidata nei rapporti internazionali.
Porta perciò i segni delle aporie della presidenza di Obama, di Guantanamo che ritorna, dell’Afghanistan che non ha termine. Proclamato di fronte alla nazione, con tutta la forza ieratica del commander-in-chief che ha autorizzato e seguito passo passo tutte le operazioni, avrà anche la forza, forse, di consacrare definitivamente il profilo di americanità che Barak Obama ha voluto disegnare per sé in questo tornante della sua presidenza – puntigliosamente certificandolo nelle settimane scorse anche attraverso documenti di vario genere, per riaffermare fuori da ogni pretestuoso dubbio della destra il suo diritto di cittadino americano di stare dove sta.
Ma l’annuncio enfatico non sfugge al problema di fondo, quello che interroga in primis gli Stati Uniti ma tocca la storia occidentale nel suo insieme e si riassume oggi in una domanda: perché non prenderlo invece vivo, quel nemico numero uno, perché non scommettere sull’opportunità di guardarlo negli occhi e chiedergli conto del suo operato, imputandolo dei suoi crimini in un processo pubblico, secondo le regole dello stato di diritto, che è tale solo se vale sempre, senza eccezioni per nessuno?
Non è questa la cifra più autentica della democrazia, quella che fa la differenza rispetto a tutto?
E perché, sul piano politico e simbolico, non optare per l’opportunità di operare una radicale soluzione di continuità tra Bin Laden e la sua leggenda? Che invece, per come sono andate le cose, sulla scena e nei retroscena, rischia di durare e di alimentare nuove suggestioni?
La vendetta non aiuta, è erba gramigna che si alimenta in continuazione di se stessa. Non a caso, mentre alla Casa Bianca si annuncia la morte di Bin Laden, Cia e servizi segreti di ogni parte già annunciano il rischio di nuovi attentati terroristici. Ci si libera del terrorista ma il suo fantasma resta e il circolo vizioso continua.
Un pessimo messaggio. Mai forse come in questa fase politica.

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