In sole poche ore di festa siamo stati sballottati tra la favola del matrimonio londinese dei principini, il grande racconto della beatitudine di Giovanni Paolo II, la tragedia “minore”, ma a noi italiani molto vicina, dell’uccisione di un figlio di Gheddafi, e quella “maggiore” della morte di Bin Laden.
Amore e morte sulla scena globale. Desiderio e terrore. Emozioni, sentimenti profondi e profondamente contrastanti.
Eppure con strani ricorsi di contentezze collettive. Qualcosa di dionisiaco che attraversa il popolo che gioisce davanti a Buckingham Palace e ammira i cappellini delle signore e della regina (quel cilindro così giallo!), i ribelli libici che saltano e sparano in aria alla notizia del figlio del nemico colpito, i pellegrini che si commuovono a San Pietro, gli americani che scendono in piazza cantando il loro inno, sventolando bandiere e mostrando persino un cartello da stadio: Obama 1, Osama 0.
Il Reale si presenta ormai – attraverso tutti i media, dalla tv ai micro messaggi tweeter di un testimone casuale del blitz Usa in Pakistan – nella forma di una Fiction vissuta contemporaneamente da centinaia di migliaia, milioni di protagonisti diretti, e miliardi di spettatori, navigatori di Internet, scambiatori di messaggini sui telefonini.
Non manca l’aspetto “giallo” del mistero. Del dubbio su ciò che è effettivamente accaduto. Sarà vero amore quello di Kate e di William? Sarà proprio il figlio del Rais quel corpo sotto il panno verde macchiato di sangue? Quella foto di Bin Laden colpito a morte è certamente un falso. L’esame del Dna è ancora in corso. Intanto il suo corpo è stato “seppellito” in mare. E si può veramente credere ai miracoli di Wojtyla?
Eppure avvertiamo vagamente che quello che veramente è successo potrebbe non essere la cosa più importante. Desideriamo il sogno d’amore, e la favola della ragazza qualunque che diventa regina. Vogliamo che il bene vinca sul male. Siamo rimasti impressionati, anche se atei e mangiapreti, dalla forza di quel Papa polacco per tanti anni sulle piazze e i teleschermi del mondo.
Forse per la prima volta nella storia la storia può essere rivissuta in tempo reale da quasi tutta l’umanità, come se il tempo si potesse riavvolgere in pochi attimi nello stesso modo in cui si riavvolgeva una cassetta video. Che nel frattempo è già scomparsa, sostituita da vari procedimenti digitali.
Perché in poche ore ci hanno raggiunto anche numerosi fantasmi della storia di questi decenni. Il sorriso di Diana, principessa del popolo, il ricordo delle vittime delle Twin Towers, gli orrori del terrorismo e delle guerre in Medio Oriente, lo spettro del comunismo.
Non si tratta solo della forza delle immagini e dei sentimenti delle masse.
Restiamo comunque una specie particolarmente sensibile alla retorica, alle parole. E sono da leggere e riascoltare due esercizi retorici significativi. L’omelia di Benedetto XVI per la beatificazione del suo predecessore, e il discorso notturno di Obama che annuncia: “giustizia è fatta”.
“Quella carica di speranza – ha detto il Papa ricordando Wojtyla – che era stata ceduta in qualche modo al marxismo e all’ideologia del progresso, egli l’ha legittimamente rivendicata al Cristianesimo”. Parole che ci interrogano: resta solo alla religione la ragione di quella speranza?
Anche Obama ha invocato spesso Dio – come sempre nella retorica politica americana – e ha molto esaltato la forza, quasi l’onnipotenza, della sua nazione così provata dalle guerre e dalla crisi economica.
Salvo avvertire proprio nelle sue ultime parole: “Let us remember that we can do these things not just because of wealth or power, but because of who we are: one nation, under God, indivisible, with liberty and justice for all”. Possiamo fare questo non per il benessere o il potere, ma per quello che noi siamo: una nazione, sotto Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti. La seconda parte della frase è ripresa dalla formula del giuramento, che a sua volta cita un famoso discorso di Lincoln. Ma Obama ha sentito il bisogno di affermare che la sua non è una politica di potenza e egoistica.
Altre parole che scelgo di citare sono quelle del direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi: “”Di fronte alla morte di un uomo, un cristiano non si rallegra mai, ma riflette sulle gravi responsabilità di ognuno davanti a Dio e agli uomini e spera e si impegna perché ogni evento non sia occasione di una crescita ulteriore dell’odio, ma della pace”.
Mi dispiace che nessun politico italiano abbia sentito il bisogno di dire qualche cosa di simile, laicamente.
Se dallo spettacolo globale voltiamo lo sguardo a quello locale, all’Italia del 25 aprile e del Primo Maggio, e dell’intervento in Libia, molto altro ci sarebbe da dire, e sempre a proposito dell’uso delle parole. Per ora solo qualche appunto, in forma interrogativa.
Si può giustificare eticamente un intervento per difendere i più deboli dalla violenza di un tiranno senza mettere nel conto una forza di interposizione che non si limiti a bombardare dall’alto senza quasi alcun rischio per la propria vita?
Si può convenire con l’urlo di Feltri: ora uccidete Gheddafi?
Passando a alternative meno tragiche, ma comunque pericolose: un sindaco di centrosinistra può impugnare la bandiera dei negozi aperti nella festa del lavoro con frasi volutamente provocatorie, starei per dire “rottamatorie”, contro il sindacato? E chi fermerà la risposta stupida e inaccettabile di chi va a imbrattare e magari a rompere le vetrine di quei negozi?
La mattina del Primo Maggio sono andato a prendere un caffè e a leggere i giornali in un bar aperto vicino a casa. Il ragazzo che era alla cassa si è scambiato più volte gli auguri di “buon Primo Maggio” con molti avventori. Cosa che mi ha sorpreso piacevolmente: ho pensato che deve pur esistere un modo più sensato di affrontare il problema.