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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Libia e Giappone, che mondo vogliamo?

20 Marzo 2011
di Alberto Leiss

Seguiamo con un sentimento simile all’angoscia le notizie che vengono dalla Libia e dal Giappone. I bombardamenti occidentali riusciranno davvero a aiutare chi si batte a Bengasi e nella altre città libiche per avere libertà e democrazia? O non ci troveremo di nuovo di fronte alla tragedia delle vittime civili innocenti, della contraddizione terribile tra la potenza militare e tecnologica dispiegata e l’incapacità di ottenere soluzioni politiche migliori e durature, condivise?
E quali saranno i danni effettivi del disastro della centrale nucleare di Fukushima, che rimarranno nel tempo aggiungendosi al lutto enorme provocato dal terremoto e dallo tsunami?
Mi sono chiesto se qualcosa lega situazioni tanto diverse che provocano reazioni in parte simili: pietà per le vittime, paura, interrogativi sulle nostre capacità di “governare” il mondo, di dare una giusta misura al nostro modo di stare al mondo.
Mi sono risposto che sì, i nessi ci sono, e sono anche profondi.
Un modo di nominarli è richiamare quel “senso del limite” che fu invocato dopo l’incidente di Chernobyl, e poi di fatto rimosso. Non molti hanno ricordato in questi giorni che in Italia, ma non solo in Italia, furono soprattutto donne a affrontare pubblicamente il tema.
Un altro modo è constatare come il dramma giapponese ci appare ancora più grave e insopportabile per il popolo che più ha patito, con Hiroschima e Nagasaki, le conseguenze dell’uso militare del nucleare. Anche allora, e nel modo più apocalittico, una guerra “giusta” contro il nazifascismo, usò la massima potenza tecnologica distruttiva contro civili inermi.
Ieri ho notato due articoli per certi versi indicativi: sul “manifesto” Raffaele K. Salinari argomentava l’esigenza di una “rottura epistemologica” anche nella ricerca scientifica (a favore della “fusione” nucleare, che sarebbe molto più pulita, anche se tecnologicamente molto più complessa, della “fissione” attualmente usata). Non so, ovviamente, quanto sia scientificamente fondato l’argomento. La scelta è stata messa in relazione con un nuovo paradigma che rinunci a “manomettere la vita per innovare la tecnologia” e si proponga invece di “curare la vita per innovare la ricerca scientifica”. “Una scienza – osserva infine l’autore – in sintesi, femminile”.
Sul “Foglio”, invece, Riccardo De Benedetti scrive che nella ricerca – ricerca scientifica che è anche ricerca della verità – non è possibile eliminare il rischio. “Rifiutare il rischio calcolato significa, infatti, sottrarre alla vita umana una dimensione essenziale della sua auto comprensione”. Inoltre è “proprio del pensiero occidentale” non solo “contemplare l’essere”, ma anche “manipolare” a proprio vantaggio il risultato della scoperta.
Non vorrei ora concludere in una semplicistica contrapposizione tra un atteggiamento “prometeico” e distruttivo maschile, e una propensione alla “cura” femminile.
De Benedetti chiude invocando un “pensiero della libertà all’altezza del rischio e non solo del suo rifiuto e abbandono, per altro illusorio..”. Mi viene in mente quella famosa frase di un signore moderato come Max Weber: “se gli uomini non tentassero continuamente l’impossibile, il possibile non verrebbe mai raggiunto”.
La tensione utopica e l’ansia del nuovo è foriera solo di catastrofi nell’era della tecnologia? Tra i libretti che troviamo allegati a molti giornali sono usciti in questi giorni anche discorsi di Oppenheimer, Eisntein, Russel sul rapporto tra la scienza e la pace.
Einstein nel 1950, parlando al programma radiofonico di Eleanor Roosvelt, si pronuncia radicalmente contro gli esiti autoritari e sicuramente catastrofici di un “atteggiamento psicologico basato sul meccanicismo e sulla tecnologia militare”. L’unica alternativa – dice – è rinunciare alla violenza, scommettere sulla “fiducia reciproca” e istituire un “organo giudiziario ed esecutivo sovranazionale” che solo in via “secondaria” potrebbe usare la violenza “come misura di polizia”.
Torniamo alla Libia. La decisione dell’Onu di queste ore si avvicina forse come non mai all’idea di Einstein, anche se gli arsenali atomici del mondo sono ancora molto pieni. Il rischio è che le buone intenzioni dei “volenterosi”(sappiamo che sono frammiste anche a intenzioni pessime) siano contraddette da una tecnologia militare che si suppone avanzatissima, ma che può fallire nella sostanza.
Un ultimo nesso è quello che lega la violenza tecnologica delle centrali nucleari attuali alla violenza politica nei paesi produttori di petrolio. Tutta questa energia è necessaria per mantenere modelli di vita e relazioni inuguali tra ceti sociali e paesi ricchi e poveri che non sono più accettabili (e chi si ribella non intende più accettarle).
Può darsi che nelle nostre vite il rischio sia ineliminabile, ma ammesso che sia “calcolabile”, certamente finora abbiamo utilizzato una matematica inadeguata.

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