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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

La speranza del mondo musulmano

24 Marzo 2011
di Letizia Paolozzi

Dunque, il colonnello Gheddafi massacra il suo popolo. Ma la guerra massacra tutto e tutti. E’ o no, l’intervento in Libia un problema di “ingerenza”? Certo, la risoluzione Onu 1.973 è arrivata in ritardo. Si teme che dei bombardamenti profitteranno i qaedisti. Produrranno nuovo odio. Perché il lancio dei cruise non è mai preciso. Si porta sempre dietro degli effetti collaterali. E le scuse per aver colpito un gruppo di donne, vecchi, bambini durante la celebrazione di un matrimonio. Oppure durante un funerale.
Forse le bombe bloccheranno gli attacchi indiscriminati sulla popolazione. L’incertezza rende la strategia discorsiva dei politici molto sottotono. Niente linguaggio euforizzante o esaltato di fronte all’operazione Odyssey Dawn. Per l’interventismo democratico sembra quasi che i cruise sostituiscano le Brigate internazionali di una volta: “Quando il violento calpesta la vittima non si può stare fermi” (Luigi Manconi).
Da Obama a Berlusconi nessuno è entusiasta della partenza dei Tornado o degli F16. Forse servirà a riequilibrare il rapporto tra i ribelli di Bengasi e le truppe del raìs. Bombe come elemento di semplificazione, garanzia di risposta rapida, appunto “chirurgica”.
Comunque, è questa guerra – l’incertezza nei suoi risultati – o la guerra in sé che non esalta più come una volta?

Era già accaduto questo indebolimento dell’idea che dipenda dal ricorso alle armi la soluzione dei conflitti. La “primavera araba” ci sta provando. Anche se lasciare che Gheddafi massacrasse la sua gente, avrebbe significato una violenta battuta d’arresto per le proteste contro i dittatori in Medio oriente e nel Maghreb. Nonostante le differenze abissali di scenario tra piazza Tahir e le strade di Bengasi.
Il fatto è che mentre al Cairo, a Tunisi, anche a piazza del Cambiamento, a Sana’a, le proteste contro la corruzione dei dittatori, hanno coinvolto maschi e femmine, studenti e studentesse, dei ribelli libici rimangono poche immagini, molto maschili di shabab precariamente armati, issati sui camioncini. Oppure di giovani combattenti che sparano in aria per festeggiare l’arrivo dei Mirage.
In questo scenario di così tanti avvenimenti importanti nello stesso momento mi mette a disagio che in Libia, tra i ribelli, non compaiono le donne. Perché quando non ci sono, non è buon segno. E’ lo stesso segno che impedisce alle culture differenti, alle differenti religioni di convivere.
Lo storico Bernard Lewis conclude una sua intervista sul “Foglio” indicando nei media moderni (radio, televisione, Internet, ecc.) una delle principali ragioni per il rovesciamento dei dittatori della Tunisia e dell’Egitto, aggiungendo: “Poi ci sono le donne che rappresentano la più grande speranza del mondo musulmano”.
Nel mondo musulmano saranno le donne e i tassi di fecondità che cambiano a guidare “una transizione destinata a rivoluzionare le strutture famigliari, i rapporti di autorità, i riferimenti ideologici” era stata la previsione del demografo Emmanuel Todd.
Presenza femminile fondamentale. Per la trasformazione della famiglia, della vita sociale, del rapporto tra i sessi. Perché scommettono sull’incontro e la convivenza piuttosto che sullo scontro di civiltà.
Il filosofo Slavoj Zizek ha raccontato del “piccolo miracolo” avvenuto alcuni mesi fa nella Cisgiordania occupata: “Ad alcune donne palestinesi che manifestavano contro il muro si è unito un gruppo di lesbiche israeliane. La reciproca diffidenza iniziale è svanita al primo scontro con i soldati, lasciando il posto alla solidarietà: alla fine una donna palestinese in abiti tradizionali ha abbracciato una lesbica israeliana con i capelli viola. Un simbolo vivente di quale dovrebbe essere la nostra battaglia”.

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