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Non rimuoviamo la complicità femminile

16 Febbraio 2011
di Stefabo Levi Della Torre

Se ho capito, l’appello di Concita De Gregorio per una manifestazione di donne il 13 febbraio fa perno sulle prostitute per dire che “noi donne non siamo prostitute”. In questo senso l’appello è mal centrato, anzi sbagliato. Sembra porre la linea di demarcazione tra donne per bene e prostitute, mentre passa da tutt’altra parte.
Neppure però passa, secondo me, tra donne e uomini, ma piuttosto tra connivenza o meno (politica e di immaginario) con la mentalità e la prassi del berlusconismo. Di questa connivenza certamente fanno parte anche gli estesi fenomeni di vendita di sé, maschile e femminile. Mi sembra che facciano bene alcune compagne a criticare l’impostazione dell’appello, la mentalità che lascia trasparire, per lo meno come lapsus. Tuttavia mi sembra del tutto sbagliata una posizione di separatismo nei confronti di una manifestazione che se riuscisse avrebbe un significato che nei fatti travalicherebbe gli errori di chi l’ha promossa. Basterebbe ragionare sulla risonanza che potrebbe avere nell’opinione diffusa, nelle sue più varie declinazioni.
“Ci dicono di uscire dal silenzio, ma noi non abbiamo mai taciuto”, dicono risentite alcune compagne. Ma la voce ininterrotta di alcune/i “intellettuali” (lo so anche nel mio piccolo) risulta socialmente un esile bofonchiare finché non diventa una voce gigante, di massa, di senso comune, tanto più se orgogliosamente si disertano le occasioni in cui questo può avvenire.
Ho trovato molto interessante l’articolo di una scrittrice sul Corriere: notava che le grandi “peccatrici” della letteratura (Anna Karenina, Madame Bovary…) avevano la tragica grandezza della trasgressione, mentre adesso “peccatrici” e “peccatori” (nella fattispecie della compravendita di sé, secondo i supremi “valori” del mercato) vengono proposti come la regola, il modello a cui conformarsi, l’orizzonte a cui aspirare. La quintessenza del conformismo, dunque.
Un rovesciamento analogo è avvenuto nelle avanguardie artistiche: trasgredire è diventata la norma. Così anche: chi non è nevrotico, oggi come oggi è anomalo. E parimenti la prostituzione maschile, di chi si vende o di chi compra tutto di sé. Aveva cominciato Craxi circa la corruzione: così fan tutti. Berlusconi è appunto il normalizzatore, il banalizzatore del trasgressivo. L’immaginario che trapela dalle sue feste è di una banalità singolare, senza fantasia.
Si dice giustamente che la capacità di persuasione antropologica di Berl. sta nel rappresentare qualcosa che ogni maschio rimescola nel limo della propria psiche, e proprio da questo discende non solo la sua capacità di captare consenso , ma anche la sua forza normativa.
Ma questo riguarda solo i maschi?
O non c’è forse anche la captazione di un immaginario che cova nel limo della psiche femminile, e che assume le vesti e le aspirazioni di Cenerentola, per assumere poi la sua versione degenerata nelle ragazze che aspirano ad andare a palazzo? Con madri e padri che le incitano alla competizione con altre concorrenti, per farsi strada sul mercato della vendita di se stesse.
Da un lato c’è il potere maschile, dall’altro quello della complicità maschile e femminile. Il potere si basa sulla sua forza normativa e sulla complicità a cui piega per la seduzione dei vantaggi e dei privilegi piccoli o grandi che può elargire.
In questo senso, lo slogan “tu non sei la norma, le tue ragazze non sono la norma” è una contestazione che ha senso. Il problema sta sempre, comunque, là dove direttamente o meno si lascia trapelare un appello alla norma, al “per bene”.
Certamente, noi uomini che manifestassimo contro le prostitute del presidente, saremmo sospetti di una forma conosciuta di maschilismo: le donne del nemico sono puttane, le nostre non lo sono. E’ un normale grido di guerra maschile, proprio delle guerre etniche. Anche questo è un giusto, fondato sospetto.
Stante che, con l’apporto del presidente del Consiglio e della sua sanzione istituzionale, il maschilismo ha ripreso la sua virulenza e la sua legittimazione mediatica, e che quindi la situazione interpella particolarmente gli uomini, nelle femministe, però, che hanno contestato l’appello non trovo chiarezza. O meglio, se la trovo, come in Anna Bravo o Lea Melandri, mi sembra una chiarezza automatica, di arroccamento: la responsabilità è maschile, è una questione che se la devono vedere gli uomini, noi difendiamo tutte le donne.
Mi ricordano quegli ebrei che dicono: l’antisemitismo? E’ un problema dei goim, noi non c’entriamo. Come la mettono queste compagne con il problema della complicità femminile? Con la complicità delle madri e delle figlie? Con il cinismo familistico che trova normale, vantaggiosa la prostituzione delle menti prima che dei corpi? Delle menti che è molto più grave di quella dei corpi?
Si legge nel Talmud che una prostituta, la cui figlia non è prostituta, non è prostituta. Si vede che era prostituta per necessità, ma ha trasmesso alla figlia altre prospettive. Queste compagne non hanno niente da dire, proprio ora, alle madri che non essendo prostitute istigano le figlie alla prostituzione, e dunque hanno esse stesse la mente prostituita, al pari di quegli uomini che fanno mercimonio di sé e delle loro cariche pubbliche?

In uno scritto di Anita Sonego ci sono alcune cose che non mi convincono: parla di “ruoli che ci sono stati propinati” e poi di “quanta complicità ci fosse, ci sia anche nelle nostre sottomissioni”. A me pare oggi particolarmente importante chiarire il rapporto tra “propinato” e “complicità”, tra ruolo passivo e ruolo attivo nel formare il proprio destino di genere.
Se stacchiamo le due cose, anche solo alla distanza di qualche periodo di uno scritto, si finisce per assumere un tono essenzialmente recriminatorio e vittimistico che si attaglia perfettamente alla figura più tradizionale “propinata” al genere femminile.
C’è poi un inciso che sento sorprendentemente contraddittorio, là dove alludendo agli scandali sessuali si dice: “suvvia, sono ben altri i motivi per cui dovremmo sbarazzarcene” (di Berlusconi).
Ma come!?
Se giustamente si dà tanta importanza alle aberrazioni dell’immaginario maschile, a quell’immaginario in cui noi uomini siamo un po’ tutti coinvolti, ha senso dire poi che sono così secondari rispetto ad altri argomenti? O la cosa è essenziale o non lo è.
Io credo che questa istigazione alla regressione di genere maschile sia essenziale, sia un punto centrale della degenerazione antropologica in corso catalizzata dalla pervasiva mentalità berlusconiana. Invece con quella parentesi Anita Sonego sembra dire: lasciamo stare Berlusconi su questo punto, perché tra i maschi scagli la prima pietra solo chi è senza peccato nel suo immaginario: lasciamo stare Berl. e mettiamo piuttosto sotto accusa il genere maschile.

Certo si può sospettare degli uomini che, come dice la Dominijanni, “si precipitano in piazza a difendere la dignità delle donne senza interrogarsi sulla loro”: può infatti essere perfettamente maschilista sostenere, come ho detto, la dignità delle “proprie” donne accusando altre di essere puttane. Certo, è perfettamente pertinente accusare gli uomini di non approfondire la complicità di immaginario che li congiunge alla mentalità berlusconiana. Una complicità che si manifesta persino nelle forme di linguaggio, nelle regressioni delle parole, nell’aggressività etologica degli atteggiamenti.
Ma appunto la saldezza delle egemonie “culturali” sta nelle complicità, maschili e femminili, e anche generazionali. Generazionali perché il rapporto che Berlusconi ha con le donne non è solo strettamente sessuale: sta nel desiderio vampiresco di carpire giovinezza a pagamento, di rinnovare metaforicamente il proprio vecchio sangue attraverso le plastiche e i trapianti e il sesso e le canzoni sentimentali, mentre da parte delle giovani si prostituisce la propria giovinezza per ottenere vantaggi e futuro.
Si esercita anche un potere del giovane sul vecchio, fa parte dello scambio osceno, fa parte della degenerazione di come si immagina il futuro. E’ il lato osceno, caricaturale, di ciò che in maniera drammatica succede socialmente ai giovani nel precariato, per necessità, per costrizione: quello di dover appoggiarsi sui vecchi e alla famiglia per sopravvivere.

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