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Una passeggiata nell’interiorità maschile

5 Dicembre 2010
di Massimo Michele Greco

“Lo sguardo è il mio”. Con questa bella frase inizia l’ultimo libro di Duccio Demetrio, L’interiorità maschile – le solitudini degli uomini (Raffaello Cortina Editore). Lo sguardo è preoccupato e descrive in prima persona alcune scene emblematiche: a partire dalla sua esperienza di relatore a congressi, dibattiti, di animatore di situazioni di apprendimento riflessivo, Demetrio racconta di come debba constatare la scarsa presenza maschile a questo tipo di proposte.
Dove sono gli uomini? Possibile che degli uomini riflessivi, poetici, pensosi dei secoli passati non sia rimasto alcun sopravvissuto che partecipi in pubblico della propria interiorità? Possibile che lo spettacolo del maschile debba essere solo istrionico? Che la malinconia e la ricerca della solitudine siano rappresentate come perdenti? Che il maschio prenda parola pubblica solo se forte, estroverso, attore su un palcoscenico, maschera del potere, compulsivo itifallico marziale? Che non si realizzi un confronto pubblico di uomini sul maschile che non abbia come obiettivo il primeggiare?
Domande che ci poniamo anche all’interno della rete Maschileplurale di cui faccio parte, forse riflettendo sul maschile in termini più politici di quelli di Demetrio. Consideriamo anche noi necessaria una qualche trasformazione dell’orizzonte del maschile, affinché essere uomini oggi possa essere un’esperienza di confronto creativo e non distruttivo o revanscista.
La prima persona singolare, nel giro di poche pagine introduttive, si fa prima rada, poi diviene plurale per poi scomparire, sostituita dalla voce impersonale del filosofo e del letterato. Una certa attività di orientamento iniziale, di definizione dei termini della questione, di inquadramento è presente e completa: le considerazioni sulla violenza maschile, la critica ai modelli egemoni, l’evidenziarsi di una necessità di ripensamento, ormai urgente. Mi trovo d’accordo e sono soddisfatto e rassicurato, sia della mia che della sua preparazione in materia. Mi lascia perplesso la scelta di nominare “maschi” gli uomini deteriorati dalla mancanza di riflessione e di profondità, esclusivamente orientati al fare e all’accumulare, e “uomini” i silenziosi, riflessivi, orientati ad un fare poetico, per i quali Demetrio suggerisce di riscoprire il valore della “nobiltà d’animo”, termine che urta la mia sensibilità post-moderna. Sono resistenze superabili e aderisco alla proposta di navigare a vista, approdare qui e là nell’arcipelago della sua cultura, senza preoccuparsi troppo di offrire una sistematizzazione teorica del maschile o di completarne l’enciclopedia.
Poi, il rimando ad una galleria di personaggi mitologici, letterari, di figure fittizie, di ritratti dipinti raccontati a voce, di invenzioni, compone una ricognizione ricca e problematica. Demetrio sembra osservare l’abbozzarsi di una possibile configurazione, trarne delle considerazioni, salpare di nuovo per altre suggestioni. Non sembrano veramente argomentazioni che si preoccupino di essere esaustive, filologiche, tassonomiche e mi sembra un pregio. Il semplice accostare la filigrana delicata di queste figure alle maschere tronfie e patetiche della mascolinità esibita nella comunicazione di massa, nella politica del burlesque e del grottesco, è già di per sé un esercizio di critica. Non c’è bisogno di diventare prolissi. La scrittura sembra essere più frutto di associazioni mentali di una mente nutrita e coltivata di letture valide e forti, di riflessività, di interrogativi, di dubbi.
Abituato come sono alla condivisione e all’autocoscienza maschile, una parte di me chiede al testo di tornare a nominare il soggetto che lo scrive, per dare veramente validità alla ricerca. Sono convinto che sia un errore proporsi di generare conoscenza e sapere sul genere, allontanandosi dal proprio racconto autobiografico e senza ribadire di essere soggetti parziali. Ma Demetrio è un filosofo colto e, come altri filosofi e altre filosofe hanno fatto, si permette di nascondersi, o di svelarsi appena appena nelle rare prime persone plurali, nelle scelte letterarie e artistiche, nell’immaginare. Se questo libro non fosse un libro, ma un manoscritto, la copia unica ed originale della trascrizione dei suoi pensieri, che girasse di mano amica in mano amica, sarebbe stato diverso. Invece è un libro, l’edizione del sé particolare che diventa generale, nelle sue tante copie stampate. E il libro mi sfugge.
Sono partito in quarta, ma mi interrompo sovente, spaesato. Sicuramente è un libro alla cui lettura nuoce la frenesia delle mie giornate piene. Arrivo ad aprirne le pagine la sera, portandomi dietro l’inerzia della mia velocità. Una frenata troppo brusca. Penso di tradirne il ritmo lento, nell’ansia di divorarlo. Mi arrabbio con me stesso: il contenuto del libro e il suo stile mi stanno alla lunga mettendo in difficoltà. Sono distratto dall’urgenza di capire il meccanismo, il disegno del libro. Alla fine del libro, sono spossato, turbato. Quando ne parlo dico “E’ un libro strano”. Chiedo aiuto alla mia rete maschile, invito al confronto e alla discussione sul testo, ma non ho ad oggi risposte articolate che mi indirizzino verso una critica più elaborata e sensata.
Non è facile per me leggere le parole di un altro uomo che parla del maschile. Su questo tema, ovviamente, ciascun uomo si sente un esperto. Possiamo affrontare da veri uomini tutte le avventure, qualsiasi luogo ignoto, ma non la vergogna del guardarci dentro, scoprirci miserelli e non accettarlo, né è facile ammettere che la maschera che ci siamo costruiti sia la parziale risposta ai nostri specifici bisogni e non un’esemplare realizzazione di un archetipo maschile, ovviamente la migliore. L’ermeneutica del testo si è attivata quindi come scorciatoia verso una sua assimilazione, disinnesco e accantonamento: competizione e senso di minaccia insieme, a difendere la mia personale teoria del maschile.
Ecco, forse è questo il problema che si può presentare ad un uomo nel leggere qualsiasi libro scritto da un altro uomo sulla mascolinità: che esso appaia presuntuoso, sia che ripeta la filastrocca tradizionale, sia che proponga ardite visioni innovative. A meno che non si sia affascinati dal maschio totalitario e si decida di seguirlo come modello, come un piccolo padre. Mi dà fastidio, forse provo invidia, per un uomo in posizione autorevole che si permette di dare un’altra versione, pur elaborata e complessa, dell’essere uomini: lo scattare del condizionamento alla competizione deprime la mia capacità di ascoltare e svela tutte le mie insicurezze.
Tutti gli uomini, mi viene da dire, stanno cercando ai giorni d’oggi di elaborare una nuova versione dell’essere maschi , anche quelli che ripetono all’ossessione, fino all’urlo proprio e altrui, la marcetta del maschio per diritto naturale dominante e conquistatore. Il mio allarme allora è nel sentire la minaccia di un pensarsi maschile più ricco e più eterogeneo di quanto io sia in grado di fare: questo mi spaventa, mi sembra di perdermi. Incomincio a pensare che lo spaesamento che provavo nella mia lettura derivi dalla molteplicità presentata nel libro, anche nel territorio di possibilità antagoniste alla mascolinità oggi egemone. La pluralità spaventa, rattrista la consapevolezza di non trovare mai un approdo, un ruolo da imparare a memoria tanto da diventare un simulacro di identità che riempia il silenzio del nostro corpo.
Demetrio indica un possibile percorso che rivolga verso la propria interiorità gli interrogativi e le insoddisfazioni, costitutive della nostra vita di uomini sempre in difetto perché incapaci di generare. Rivolgersi verso l’interno vuol dire tornare sui propri passi, soprattutto autobiograficamente. Le parole preziose dei poeti, degli uomini sensibili, ci possono aiutare a nominare il nostro paesaggio interiore e a diventare anche capaci di apprezzare il silenzio e la solitudine, prima di tutto quella del nostro corpo maschile. Mai potremo essere dimora di un’altra presenza, mai potremo sperimentare la connessione vivente e continua della propria carne con altrui carne, l’una dipendente dall’altra. Siamo stati educati a trasformare questo vuoto in una bulimia di conquiste, conferme e compensazioni esteriori. Se dirigessimo invece la nostra esplorazione all’interno di noi stessi, forse anche per noi ci sarà modo di trovare un senso alla nostra condizione maschile. E se questa ricerca la rendessimo parola condivisa, resoconto di viaggio da scambiare con altri esploratori, senza indulgenze nei confronti della tentazione di gareggiare andrologicamente, si potrebbe creare il terreno per una nuova convivenza tra uomini e con le donne.

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