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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Saper vivere a Napoli

15 Dicembre 2010
di Letizia Paolozzi

Nel quarantaquattresimo rapporto Censis, De Rita parla del desiderio come “virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita”. Vale il discorso anche – soprattutto – per il nostro Meridione dove grande è l’“infelicità senza desideri”?

Intanto, bisogna distinguere tra luoghi, storie, linguaggi, tradizioni, comportamenti differenti. I vizi (e le virtù che pure ci sono) vanno in tante direzioni. Ma il sistema dell’informazione è pigro. Non vede la differenza. Piuttosto da valore alle appartenenze. “E’ napoletano, calabrese, siciliano” diventa lo stigma che accomuna. E “l’appartenenza a un luogo prevale su tutto, ostacola il libero accesso a un’identità mobile, non sclerotizzata, ingabbiata in soffocanti luoghi comuni” (Luisa Cavaliere “Anticorpi. Dialoghi con Emma Dante e Rosella Postorino” Liguori editore, 2010).
Luoghi comuni, in effetti, soffocano il Mezzogiorno. Basta pensare a Napoli. A un film bellissimo come “Passione” di John Turturro, che attraverso il multiculturalismo mediterraneo, ha provato a rimuovere i cliché, gli stereotipi. Che pure sono aggrappati a Napoli. Così bella, così dolente. Nonostante il conformismo, la riluttanza alla modernità, lo scarso spirito civico, la retorica compiaciuta della sofferenza.
Alla fine, si arriva lì. Alle stigmate del dolore. Oppure, ai paragoni con le nebbie della Padania: “Ma vuoi mettere la luce, Capri, il Vesuvio?”
Mancano gli strumenti per reagire di fronte alla vicenda dei rifiuti. Che è vicenda dello stato che latita, dei sindaci che si sdraiano di traverso sui binari dei treni, dei preti che guidano le marce antidiscarica. Ma anche di una popolazione che al degrado di molti paesi del Parco vesuviano non ha posto mente. Nonostante gli si degradasse tra le mani. Abitanti che son stati Attila e oggi sono ambientalisti. Comunque, al primo posto nelle responsabilità ci sono le classi dirigenti. Per carità, non è (solo) questione di reati. Piuttosto di abdicazione al proprio ruolo. Chi sta in alto nella scala sociale porta maggiori responsabilità di chi sta in basso. Quando Rosetta Russo Iervolino risponde all’ennesimo oltraggio della munnezza “Ho le mani e la coscienza pulita” una si chiede: E chi le ha sporche? Il governo che non ha dato i mezzi; la camorra che sversa; i napoletani che non separano l’umido dal secco?
L’unica strada consentita pare quella della “disobbedienza civile”, che poi a Napoli e dintorni significa stare con un piede dentro e uno fuori dalla legalità. Ora, se le istituzioni mancano di autorità, la mediazione è difficile. E vince l’accerchiamento dei camion.
Detto questo, nella società meridionale vivono maschi e femmine. Con le loro contraddizioni. E le loro risorse. “O ninno”, il superlatitante Antonio Jovine, è stato arrestato grazie a una poliziotta – una donna – che si è trasferita a Casal di Principe, dove ha seguito per mesi le due vivandiere – due donne – che lo accudivano. Le “mamme vulcaniche” di Terzigno hanno cercato di dare assennatezza alla protesta. Imprenditrici, presidenti di fondazioni, docenti, casalinghe continuano a raccontare sulle pagine del “Mattino” come fanno la differenziata. Certo non possiamo dirci soddisfatte e soddisfatti. Ma intanto cerchiamo di partire da quel poco o tanto che si muove, che tenta la strada di una reazione, piuttosto che insistere nelle lamentazioni, o indulgere alle rappresentazioni usuali del Sud maledetto, di cui però ci si innamora per i tramonti sul mare e la cordialità in pizzeria.
Sabato al Gambrinus, in piazza Plebiscito, dirigenti politiche, giornaliste, esponenti di associazioni del volontariato, fatte esperte dalla loro vita di donne, si sono date appuntamento per parlare di Napoli. E del lavoro necessario per viverci. Saper abitare il proprio “luogo” non vi sembra che abbia la sua importanza?

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