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Madri selvagge e paure maschili

13 Ottobre 2009
di Gabriella Bonacchi

Premetto subito che il libro di Letizia Paolozzi e Alberto Leiss, La paura degli uomini. Maschi e femmine nella crisi della politica, (Milano, Il Saggiatore, 2009) è un ottimo esempio di qualcosa che in Italia è poco diffuso, perché da noi prevale o la comunicazione specialistica o la divulgazione come estrema banalizzazione degli argomenti trattati. Il volume ci fornisce infatti un indice accurato di qualcosa da cui dovremmo sempre partire per andare successivamente in profondità su ciascuno dei temi che più ci appassionano. E’ insomma una sorta di indice degli argomenti che compongono quello che chiamerò il clima comunicativo del nostro presente. Tornerò a soffermarmi su questo punto e vedremo che si tratta di una questione non irrilevante.
Ma prima vorrei sgombrare il campo da alcuni equivoci. Non mi si convincerà mai che per i rapporti tra donne e uomini stia per aprirsi l’epopea della conciliazione. Non che il libro di Letizia e Alberto sostenga questo, per carità. Ma non vorrei neppure che a nessuno venisse in mente di poterlo, se pur alla lontana, catalogare tra i libri del postfemminismo. Intanto, anche questo libro mi sembra confermare che l’uomo e la donna, per essere compresi, vanno presi in quanto al sesso. E dunque, da questo punto di vista perché non viviamo nessuna epopea della conciliazione? Ma perché, come diceva il buon vecchio Tolstoj, che di queste cose ha portato il segno a fuoco nelle carni della sua scrittura, gli uomini si sposano (all’epoca di Tolstoj lo si faceva molto spesso) per avere in casa “invece di polvere e noia, delizia, grazia, bellezza e godimento”. E invece, allorché si mettono in casa una donna, avviene qualcosa di simile a quello – scrive nella Sonata a Kreutzer – che voi sentireste se vi foste sistemata una poltrona comoda presso il caminetto per riposare, e improvvisamente questa si voltasse a gambe in su e manifestasse i propri desideri, di giocare, di riposare. Vi stupireste: come può una poltrona desiderare qualcosa per sé? Non è che una poltrona. La capovolgete, volete sedervi e quella ricomincia…Lo stesso avviene con tutti. E cominciano i dissidi, le liti”. Si sa come va a finire tra il protagonista della Sonata e sua moglie…
E oggi, che le poltrone si rivoltano, cantano e suonano, o – meglio – le suonano all’uomo padrone di casa? Che accade, quando la prostituta smette di farsi descrivere voluttuosamente nella scrittura – la pornografia – che le è dedicata, e prende parola e penna in prima persona?
Oggi siamo, si dice in una epoca postcontrattuale. In un’epoca cioè in cui i rapporti e i contesti in cui i rapporti sono inseriti si presentano come regolati da una logica che non è più quella, prevalente per qualche buon secolo, del contratto. Non che tutto, anche nell’epoca contrattualistica – per così dire – fosse regolato dal contratto. Anzi. Ma i conflitti e le negoziazioni che hanno caratterizzato questa epoca erano perlopiù giocati nell’area dell’esclusione/inclusione o del centro/periferia rispetto alle regole auree del contratto. Sappiamo quanto le donne, il loro pensiero, la loro ricerca, i loro guadagni e le perdite subite, si siano giocate intorno al nodo dell’essere contrattualmente partner imperfetti, non importa se per eccesso o per difetto di valore…
Ma che cosa vuol dire epoca postcontrattuale esattamente? Significa forse che prevale ormai la logica anticontrattuale per eccellenza, vale a dire la logica della cura o sollecitudine che ha per secoli costituito niente altro – in realtà – che l’ombra del contratto stesso? Si tratta di un punto importante da chiarire, perché la sollecitudine, la cura, la preoccupazione per l’altro è stata spesso considerata la Dimensione femminile delle relazioni umane, come accade in certe letture del legame materno, dove il dono, come dono unilaterale della vita, eccede lo scambio e il calcolo. Questo punto va dunque chiarito bene per due motivi principali. In primo luogo perché questa sorta di “privilegio” materno si è spesso tradotto in condanna per le donne ad una permanente subalternità.
Ma vi è anche una seconda ragione: questo ambiguo privilegio determina l’attribuzione alle donne della responsabilità della dipendenza altrui. La condizione di dipendenza si raddoppia così per le donne, riducendone non solo praticamente, ma anche concettualmente lo status di soggetti liberi: addette ai bisogni di dipendenza altrui, rischiano di diventare esse stesse dipendenti economicamente e con ridotte possibilità di agire nella polis. Addette ai bisogni «particolaristici» dei loro famigliari, subordinate ai mariti, le donne vengono considerate per ciò stesso incapaci di universalismo e di interesse per il bene comune. Il loro stesso corpo sessuato e riproduttivo diviene una risorsa insieme privata (degli uomini loro familiari) e pubblica (della società e dello Stato che tramite esse si riproduce). Perciò non può essere lasciato totalmente a loro disposizione.

Di qui la necessità di un rifiuto netto della dimensione del “dono” come univoco destino femminile, né nella forma della condanna né in quella del riscatto. Per Luce Irigaray la cura o sollecitudine non è un “supplemento” del legame contrattuale ma la modalità stessa delle relazioni interpersonali così come esse invalgono e si dispiegano tra le donne. Le metafore dell’”aperto”, dell’accoglienza, del volume “senza bordo”, fanno apparire così il femminile in contrasto con il carattere unitario del maschile fallico. In Irigaray il non uno del femminile non è una variante seconda dell’uno maschile (come in Lacan): al contrario, l’uno fallico ne rappresenta la riduzione. La donna donatrice dei vita è la modalità privilegiata della relazione umana che produce un cortocircuito nelle leggi abituali – dette maschili – dello scambio. In questa prospettiva la sollecitudine non è un supplemento al contratto: è un’altra modalità della relazione, altrettanto costitutiva e capace di rappresentare una risorsa rispetto alla prima. Mi sembra pertanto da respingere decisamente l’idea – tipica di Levinas – per cui dalla relazione con l’altro sarebbe esclusa a priori qualsiasi forma di scambio, compreso lo scambio non calcolabile sui parametri di una moneta unica.
Ecco qui giungere in soccorso la nozione di patto, enunciata da Hannah Arendt e che appare più capace di dar conto dell’ambiguità del legame interumano che impegna l’uno all’altro ma senza predeterminare i limiti o l’oggetto di tale impegno. Il patto – l’impegno verso l’altro nella sua indeterminatezza – impegna due persone alla pari, in modo eguale, ma è un’uguaglianza che include la dissimetria. Arendt, nell’ambito non di un’etica ma di una filosofia politica, iscrive l’ambiguità del dono e dello scambio, della cura di sé e della cura dell’altro, nella forma dialogale che disciplina la divisione di un “mondo comune” costituivamente iscritto nella dissimetria dei punti di vista. Il dialogo è per Arendt lo spazio dove ciascuno allo stesso tempo afferma la sua presenza e si sottopone all’interpellanza permanente dell’altro. Così il patto, a differenza del contratto, assume la relazione con l ‘altro, ma senza predeterminare a priori il contenuto.
Veniamo di nuovo a noi. Qual è oggi l’elemento più nocivo rispetto alla dimensione dialogica cui fa riferimento la Arendt? Che cosa tende oggi a rendere puramente “supplemento” la dimensione femminile dell’esistenza e del pensiero? E che cosa rende impossibile il patto?
L’indice degli argomenti del libro di Paolozzi-Leiss ci aiuta a ricostruire che cosa determina questa impossibilità: l’esistenza di un clima comunicativo sfavorevole all’espressione di autonomi desideri femminili. Dall’insieme dei temi affrontati – dalla paura degli uomini alle pericolose oscillazioni di un confine sempre più fragile tra pubblico e privato – affiora tuttavia anche una indicazione che può davvero riuscire preziosa. Ed io l’accolgo ben volentieri. Vi sono cose nell’attuale spirito del tempo che possono rappresentare una probabile ripresa del processo di individuazione, reso così difficile dalla nostra storia pregressa. Ma perché ciò avvenga, è necessario che le donne possano esprimere se stesse fino in fondo, come identità simbolica, ovverosia civile e culturale. Solo così gli uomini possono essere aiutati a uscire dal mondo materno come selvaggio mondo privato.
L´individuazione umana si conquista in due, nel rispetto delle reciproche differenze. È un passo ancora da compiere, che sposta il limite tra privato e pubblico attraverso l´apprendimento di un´intimità che possa sostituire quella familiarità indifferenziata e incolta, che sta ora
minacciando la nostra vita politica e culturale.

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