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In ricordo di Roberta Tatafiore

18 Giugno 2009
Questo articolo è comparso nel numero di aprile di Leggendaria
di Mariella Gramaglia

A ogni primavera nei viali storici e nei lungotevere di Roma rinascono, di un verde tenue e sottili nel vento, le foglie dei platani. Scendono nei rami fino al fiume, accarezzano il cielo cristallino e i tetti dei palazzi antichi. A ogni primavera penso a quante volte vedrò ancora questo spettacolo incantato e auguro alla persone che mi sono care di gustarlo per tante stagioni. Roberta non sarà tra loro. Non la nutriva più. Forse nulla la nutriva più.
Tra la metà degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta il susseguirsi dei platani mi guidava letteralmente dalla mia casa alla redazione di noidonne. Lì c’era un collettivo di donne belle, appassionate e pensose. Controcorrente, in quegli anni che per molti (uomini soprattutto) erano, o di malinconia ripiegata dopo le passioni rivoluzionarie, oppure di apprendistato all’edonismo, al nuoto secondo corrente. Lì, a dove andasse la corrente, non badava nessuna. E Roberta meno di tutte.
La ricordo fulva negli abiti, nei colori del corpo e dei gioielli, con un tratto leonino nell’eloquio, nella passione dell’argomentare, nella potenza quasi fisica del diniego rispetto all’opinione dominante, se non la convinceva. E spesso non la convinceva. Roberta era profondamente anarchica, ma non solo per carattere, piuttosto per la torsione particolare con cui usava la sua intelligenza e il suo rapporto con il mondo. E per me, che di quel collettivo ho avuto per un periodo la responsabilità, tutto ciò era un problema di non poco conto.
Ci stimavamo, io la consideravo, oltre che una donna di grande fascino, una professionista acuta e affidevole. Ma ci divideva qualcosa che sarebbe riduttivo rinserrare nei comportamenti, che aveva a che fare con la battaglia delle idee fra le donne in quegli anni e negli anni a venire. In che contesto si colloca la libertà femminile, ammesso che il contesto abbia rilievo? Può fiorire autonomamente, anche per una scelta di metodo che mette il resto del mondo “tra parentesi”?
Io ho sempre pensato di no, ho sempre portato due passaporti in tasca, quello del femminismo e quello della ricerca sulla democrazia e le sue regole, e della pratica delle istituzioni. Per Roberta anche un solo passaporto era troppo: non esitava a sgualcirlo, a perderlo di tanto in tanto, pur di seguire fino in fondo il suo demone. Da qui spesso le nostre divisioni, anche i nostri scontri, su molte questioni concrete: dalle azioni positive, alle quote, all’utilità in sé di legiferare su aborto e violenza sessuale, alla prostituzione, al valore del voto e delle istituzioni. Erano grandi discussioni e grandi rabbie, talvolta seguiti da lunghi silenzi.
Più tardi ci siamo ritrovate per momenti. Le nostre diverse strade di lavoro ci hanno portate lontane e l’intensità della nostra consuetudine di allora non si è mai trasformata in un’amicizia privata. Negli ultimi incontri non facevamo più faville. Forse ero cambiata soprattutto io, dato il più modesto affidamento che ormai faccio sui miei passaporti.
E’, credo, il senso di incompiutezza, che mi fa apparire il suo gesto come puro strazio. Non ho vissuto la tenerezza amicale che fa spazio alla compassione profondamente vissuta, né ho partecipato di un’ avventura intellettuale che fa pronunciare ad alcune le parole “rispetto” e “atto di libertà”. A me resta il vuoto. E una preghiera, se in qualche luogo Roberta può ascoltarla: “non ci indurre in tentazione”. Credo che la mia generazione di donne, al momento in cui il sole declina, abbia bisogno di tanto coraggio per vivere.

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