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Eluana, l’impotenza della legge

9 Febbraio 2009
di Letizia Paolozzi

Ho guardato cosa è avvenuto in questi giorni intorno al letto di Eluana Englaro nella clinica di Udine, fino alla sua fine, e mi dico: Sì, io vorrei che la mia vita finisse in assenza di qualsiasi legge.
Intanto, perché il ddl che si sta votando in queste ore in Parlamento, sarà una “cattiva“ legge. Non starà dalla mia parte. Le pretese dettate dall’ideologia non terranno in considerazione il mio corpo, la mia storia, l’esperienza che mi porto iscritta nella carne.

Ma non solo di questo si tratta.
La decisione sul “come“ prendere congedo è questione segreta, nascosta nella mia intimità.
Io non voglio che le mie domande, i miei interrogativi: se ho paura della morte, se non voglio soffrire, se voglio addormentarmi e basta, siano regolati da una norma magari “buona“, ma che per forza di cose non può tenerne conto.
Per una volta sono d’accordo con Angelo Panebianco (sul Corriere della Sera del 9 febbraio). C’è una “intrattabilità politica“ del tema della fine. Gli schieramenti sul Sì o il No alla legge, tutti giocati sulla necessità di normare, dimenticano chi sta lasciando la vita: il morente.

Chiediamoci piuttosto cosa spinge a questa giuridicizzazione, al bisogno di incanalare in una legge un momento tanto estremo? Probabilmente, la paura di quel momento, l’incapacità di pensarlo, di accettarne il carico di sofferenza “L’ammissione del dolore di non sapere è il riconoscersi umani, limitati“, ha scritto Bia Sarasini su questo sito. Si fatica (almeno nel ceto politico e non solo) a riconoscersi “umani, limitati“.
La vicenda di Eluana Englaro parla del nostro dolore. Giacché a molti di noi è successo di trovarci di fronte a una persona amata morente, che chiede di morire. O che si trova in una condizione nella quale non può chiederlo.

Questa persona è in una condizione di dipendenza estrema. Dipende da noi. Dai legami che con noi ha stretto. Rientra nelle nostre relazioni e quella della relazionalità è la qualità propria della condizione umana. Sta a noi (agli amici, ai medici) la responsabilità di aiutarla.

Peppino Englaro si è assunto questa responsabilità. Accettando di prendere tra le sue mani – grazie alla relazione con la figlia – la decisione, l’affidamento, l’interpretazione di ciò che Eluana avrebbe voluto per sé. Non so se questa vicenda terribile sarà capace di risvegliare “le parole e i pensieri migliori di laici e cattolici di questo paese“ (Alberto Leiss su questo sito). Certo, laici e cattolici non possono trovare pensieri e parole migliori fino a quando si aggrappano alle posizioni dogmatiche. Tra queste c’è la legge, invocata non per tutelare il rapporto tra un padre e una figlia, ma per spezzarlo.

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