È in corso una feroce partita, in questi giorni, una partita di potere che si esalta della morte. Il potere della Chiesa, che di vita e morte avrebbe una conoscenza assoluta, il potere politico, che intorno al dominio su corpi, esistenze e fine cerca la misura di una sovranità che si vorrebbe senza limiti.
Eppure non vorrei parlare di questo, dello scontro dei poteri. Mi sembrerebbe di essere complice, di questo oscuro dominio della morte che incombe plumbeo sulla scena pubblica italiana.
Non che non sia urgente sostenere la democrazia, per questo partecipo a presidi e manifestazioni.
Ma altrettanto urgente mi sembra mettere in chiaro che non si va in piazza per Eluana. Sarebbe disonesto sostenerlo. Si va in piazza per difendere principi, idee, non per accompagnare il morire di Eluana. Anche quando si sostiene la scelta del padre. Come tutti, si distoglie lo sguardo e l’attenzione dalla concreta esperienza del morire.
Eppure, è proprio al morire che occorre tornare. Per scardinare la terribile astrazione del potere che pretende di averne la sovranità, della morte, di poter stabilire quale sia la fine e il principio, una volta per sempre, per legge. L’unica strada mi sembra tornare alla singola, concreta esperienza di Eluana,non occultarne l’andare verso la fine, nominare il dolore, che la scelta del padre di Eluana di fare del suo morire una vicenda pubblica ci ha consegnato.
Dolore che per noi che non l’abbiamo generata, cresciuta, amata da sempre, o incontrata nel corso della sua vita, è il dolore di riconoscere che non abbiamo certezze. Non i credenti, non i laici.
Non abbiamo certezze, non sappiamo dire quale sia il confine, la linea che divide la vita dalla morte. Non sappiamo con certezza qual è la scelta giusta che vale per tutti. Al massimo ciascuno può dire per sé, come sarebbe nel testamento biologico. Soprattutto non sappiamo nulla di come sia il morire oggi, all’epoca delle mirabolanti, e quanto benedette, in generale- tecnologie mediche. I più anziani hanno ricordi, ma soprattutto racconti, di come si moriva un tempo, dettagli di tormenti atroci in famiglia, tra qualche rara esperienza di fine serena. Poco o nulla si sa di come si muore oggi, pochi hanno chiaro che nel morire il dolore fisico è più o meno sparito, e le tecniche disponibili impongono quasi sempre, a parte le morti traumatiche e immediate, mute domande, mute scelte, tra medici, familiari e soprattutto pazienti, quando sono vigili. Quanto vuoi rimanere attaccato alla vita? Quanto vuoi che il tuo caro rimanga in questa vita, a qualunque condizione?
Sono dilemmi, sofferenze, angosce su cui non abbiamo pensiero, conoscenza, saggezza accumulata. Eppure, se questo è prendere il posto di Dio, succede ogni giorno, in ogni casa, in ogni ospedale. Si procede a tentoni, per approssimazioni, per amore. Si impara dall’esperienza, nel conforto delle relazioni, della condivisione del dolore, dall’ascolto.
È questa l’esperienza che mi sembra assente dalla scena che abbiamo davanti. Non vorrei che tutti, anche i resistenti laici, stessimo al capezzale di Eluana, il cui morire –forse – nel chiuso di una stanza avviene in pubblico, come Terri Schiavo ma soprattutto come succede a sovrani, capi di stato, dittatori, pontefici, solo per celebrare i fasti o nefasti del potere.
Ma di fronte a tanto dispiegamento di potenza l’ammissione del dolore del non sapere è la critica più forte, è riconoscersi umani, limitati, eppure capaci di scelte. Permettere a tutti, a quei cittadini bombardati in queste ore da una propaganda crudele e determinata a dominare le menti, cittadini sempre più disponibili secondo gli ultimi sondaggi (vedi Corsera 8/2/2009) a cambiare idea, a dire sì, io non sono per la morte, permettere a tutti di riconoscersi nella comune, umana esperienza del limite. E ascoltare il saggio presidente Giorgio Napolitano: «Nessuno ha il monopolio della sofferenza e della vicinanza». Urge trovare le parole per dirlo.