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Sibilla Aleramo, Mussolini e Togliatti

18 Settembre 2008
Questo articolo è stato pubblicato anche sul Secolo d’Italia
di Roberta Tatafiore

Nel chiedere di essere ricevuta, lei gli ha scritto: “Perché un poeta accetti nel suo spirito un dittatore bisogna che lo abbia davanti a sé, una volta per sé soltanto, e lo fissi negli occhi”. Il giorno dell’udienza, lui è in piedi dietro la scrivania, di spalle alla porta. Declama la frase che lei gli ha scritto, si gira e la guarda intensamente.
Lui è Benito Mussolini a 45 anni, all’apice della potenza. Lei è Sibilla Aleramo a 53 anni, famosa scrittrice drammaturga poeta giornalista, femminista pacifista e socialista nonché firmataria del manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Cosa la spinge a precipitarsi a Palazzo Chigi non appena, il 18 gennaio 1929, il dittatore la chiama? La fame. Colei che si definisce “un poeta”, salta i pasti e vive in una soffitta di via Margutta gelida d’inverno e bollente d’estate, abbandonata dalla critica e dal pubblico che l’avevano portata in palmo di mano. E però si presenta al Duce dritta come un fuso a pretendere di essere nominata membro dell’Accademia D’Italia. Lui le risponde che non ha alcuna intenzione di inserire una femmina nel massimo consesso culturale del paese. Lei gira i tacchi. Lui la trattiene.
Da quel momento, per 14 anni, Sibilla se la cava alla meno peggio come uno dei tanti artisti foraggiati dal regime. Il sussidio l’aiuta a mantenere alto il proprio nome, le lodi al regime che tesse sulle gazzette le procurano piccoli introiti, la protezione governativa la tiene lontana da qualsiasi fastidio. Nel 1943 il ministero della Cultura le ordina di trasferirsi a Salò. Lei rifiuta dichiarando “vergognoso”quell’estremo tentativo di salvare il fascismo. Nessuno le chiede conto del sovversivo giudizio. Nella tragedia ferina che si sta consumando, poco spaventa lasciare libera la parola di un poeta, tanto più la parola di un poeta donna nella quale riecheggia ancora l’ardore di un esordio letterario che l’ha resa intoccabile. Sono due spiriti tragici quelli di Mussolini e di Aleramo. Tragici e storici.
La vita adulta di Rina Faccio (questo il vero nome), splendida adolescente, comincia a Porto Civitanova Marche con uno stupro e la costrizione a sposare chi l’ha violata. I due fanno un figlio, ma il matrimonio è un inferno provinciale dal quale lei si difende scrivendo sotto pseudonimo per le gazzette locali. Autodidatta e dotata di volontà virile, abbraccia la causa femminista dell’epoca fino a diventare direttrice di una delle più importanti riviste che perorano il Risveglio della Donna. A soli 23 anni.
I suoi frequenti viaggi a Milano, epicentro del movimento e di contatti con tanti uomini e donne importanti, il rifugiarsi domestico nella scrittura del diario, imbestialiscono il marito che le pone l’out out: o resti a casa o te ne vai. Rina se ne va, lotta per portare con sé il figlio. Perde e sparisce. Vola nella capitale e nelle braccia del primo amante. Quindi inizia una convivenza con un severo poeta, Giovanni Cena, che l’acquieta. Insieme si dedicano alle opere sociali che lei suggerisce. Insieme frequentano l’intellettualità laica e socialista. Ma è lui che la tiene in pugno. La ribattezza Sibilla (il cognome nobiliaresco se lo sceglie da sola), la spinge a trasformare gli abbozzi diaristici in un romanzo autobiografico del quale controlla la stesura.
Pubblicato nel 1906, “Una Donna” è subito al centro del mondo letterario politico e mondano e sulla vetta delle vendite e delle traduzioni. In ben otto lingue. Tre anni dopo, l’amore per la “fanciulla maschia” (Lina) spinge Sibilla a separarsi da Cena. La nostra non ha gusti omosessuali, ma è un trapano dell’anima propria e dell’altra, nella quale cerca quella risonanza femminile che le manca, malgrado la milizia femminista. Le due si lasciano dopo pochi mesi.
Ha 36 anni, Aleramo. Le arridono la bellezza matura e l’innata eleganza che fanno aggio sulla miseria economica che la perseguita, anche quando entra nella girandola del sesso e del successo. Una miriade di nomi maschili, la maggior parte dei quali famosi. Uno stare al centro della scena lì dove accadono le novità, con i vociani a Firenze i futuristi a Milano e poi a Parigi nei migliori salotti artistici, senza mai aderire a alcuna corrente di pensiero o moda. Un girovagare da avventuriera tra case di amici e alberghi portandosi sempre dietro i taccuini quotidiani. Scrive fiumi di lettere agli amanti, che si chiamino Cardarelli o Boccioni, Papini o Campana, Evola o Quasimodo. O che si chiami D’annunzio, amante mancato cui si rivolge con l’appellativo di Poeta Nostro. Scrive persino a Benedetto Croce per chiedergli si aiutarla in un intrigo amoroso. E questi le raccomanda di darsi una calmata. Lei risponde che lui non capisce niente di esperienza e coscienza femminili.
Ma gli uomini cui scrive possono anche essere belloni senza testa, bibliotecai, commercianti ricchi, sportivi oltre che ricchi, famosi. Sibilla ama per scrivere e scrive per amare, per “fare della propria vita un capolavoro”. Molti uomini la lasciano, e giù lagrime di lei; molti vengono lasciati, e giù lagrime di lui. Si potrebbe considerare una partita “a somma zero”. Se non ché Sibilla è pur sempre “Una Donna”, la femminista che aveva scritto che occorreva “riformare la coscienza dell’uomo, creare quella della donna” e, non potendo aver ragione del proposito pedagogico di gioventù, diventa così libera così forte così errante da soffrire le pene dell’inferno. Pene che raccontano una sete di giustizia che non è di questo mondo.
Fino al fallimento finale. Nel 1936 Sibilla ha 60 anni. Incanutita, costruisce un frezza bianca dritta nel mezzo della chioma rosso henné. E’ ancora famosa, ma i suoi romanzi insistentemente autobiografici non vendono, i suoi drammi vengono fischiati. Galleggia nella soffitta di via Margutta incassando sconfitte. Sta lasciando Quasimodo, di un buon decennio più giovane, pazzo di lei, allorché si fa avanti un poeta provinciale e meschino ma bello e ventenne. E’ subito “Amore insolito”, il titolo del diario pubblicato postumo nel 1979 in cui lei annota i desideri palpitanti del passato, il coraggio disperato del presente. Quando lo lessi mi irretì e mi commosse. Rileggendolo in questi giorni ho provato gli stessi brividi. Perché, paradossalmente, in Sibilla Aleramo c’è una individualità incompiuta: indomabile ma soggiogata da un super-io così esigente da imporle il continuo sacrificio di sé.

L’ultima favola dell’indomabile termina nove anni dopo con l’ultimo abbandono, da parte del giovin-poeta diventato insofferente e tirannico. Sibilla non ha più niente in mano. Così il 3 gennaio 1946 scrive una lettera alla direzione del PCI chiedendo l’iscrizione al partito. Palmiro Togliatti accoglie a braccia aperte la “compagna intellettuale”. Colei che fu “un poeta” accolto da Mussolini, percorre il viale del tramonto incensata, vezzeggiata e protetta nell’ambiente e nell’apparato culturale comunisti. Dopo quasi quarant’anni, il suo romanzo d’esordio è ancora il suo usbergo e la sua gabbia: viene ripubblicato, recensito e venduto, ma gli altri libri, anche i nuovi, non li legge più nessuno. E però come giornalista ridiventa popolare sfoderando la sua antica vena pedagogica sulla stampa di partito, l’Unità e Noi Donne. Per premio viene trasferita dalla sgangherata soffitta in un appartamentino nuovo e con il riscaldamento.

Muore a 83 anni, il 13 gennaio 1960. La sua ultima annotazione sul diario risale a 5 giorni prima.

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Nel 1925 firma il manifesto di Benedetto Croce contro Giovanni Gentile

Viene ricevuta da musso lini il 18 gennaio 1929 ha 53 anni lui ne 46 Zaniboni 1924 matacotta ha vent’anni, 1936, sibilla 52

bisogna riformare la coscienza dell’uomo, creare quella della donna 23 anni

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