Metti una sera a cena tra donne appassionate di politica, di politica delle donne in particolare. Quasi un test: si commenta l’implosione della sinistra (Scalfari insegna), ma soprattutto si rincorrono battute su barracuda Sarah, maternità esibite, nonnità troppo precoci, sterminio di caribù.
Lo schiaffo Palin deprime la fantasia. Si tentano bilanci, ma si precipita in fretta nei luoghi comuni, si fa fatica a volare alto. C’è anche chi tenta di fare buon viso: finalmente le donne emergono ovunque e possiamo permetterci di criticarle. Ma il senso di sconfitta prevale.
In verità è già da un po’ di anni che le donne di sinistra, (italiane), prendono schiaffi in faccia. All’interno del proprio mondo, prima che sulla scena planetaria. Soprattutto quelle che hanno fatto la gavetta della politica, che si sono affannate nella doppia militanza, quella di partito e quella femminista, che hanno cercato di fare gruppo tra loro, che hanno studiato leggi, regolamenti, che hanno costruito mediazioni tra laiche e cattoliche, tra partiti e movimenti, tra istituzioni paritarie e pensiero della differenza.
Tutta questa fatica per poi vedere l’ultima arrivata fresca e carina diventare bandiera del proprio schieramento. Bandiera senza potere, si intende. Simbolo, come succede alle bandiere. Al potere, piccolo o medio, sono fin troppi gli uomini che concorrono con il petto carico di medaglie, o di patacche. Comunque l’evidenza è che non c’è spazio.
Tutta colpa degli uomini che non investono sulle donne?
E’ vero che al più si chiede a qualcuna di andare nelle situazioni di confine a tentare missioni impossibili. Ma loro, le donne, che fanno? Mugugnano, si lamentano, si criticano sottovoce l’una con l’altra, ma non rischiano, non sparigliano, tutelano le loro rendite di posizione. C’è da chiedersi se gli schiaffi non se li meritino.
E’ soprattutto da destra che più che schiaffi arrivano ceffoni. Era cominciato con la Pivetti, (ricordate?), al primo governo Berlusconi. Poco più che trentenne, poca esperienza alle spalle, croce vandeiana sul petto ed eccola presidente della Camera. Da allora è stato tutto un succedersi di inedite new entry femminili. Bandiere? Sì, quasi sempre. Ma intanto la scena politica si popola di facce, corpi, voci femminili. E chi per anni aveva lavorato affinchè questo succedesse sta a guardare. Consolandosi con litanie appassite.
A guardare fuori dall’Italia poi c’è da sentirsi male. Ségolène Royal non è stata solo una bandiera. Ha vinto le primarie e ha provato veramente a diventare Presidente della Francia. Ha giocato se stessa tutta intera, competenza e seduzione, leader, madre e compagna. Ha perso, ma il vincente ha capito la lezione. Così diventa ministra una come Rachida Dati, che oggi non nasconde la sua gravidanza indipendente. Come Chacòn, d’altra parte, ministra della Difesa spagnola, che vola in Afghanistan e passa in rivista le truppe poche settimane prima del parto.
Meno che mai è stata bandiera Hillary Clinton: avrebbe potuto diventare presidente del mondo. Con poca lungimiranza, per eccesso di prudenza o di misoginia, il suo partito non ha voluto sceglierla. Non abbastanza donna, non abbastanza uomo, troppo sposata.
Poi, sull’altro fronte, arriva Palin, possibile vice presidente del mondo. Il massimo del successo per una donna politica, e il massimo dell’insuccesso per le donne di sinistra. E’ bene prenderne atto: c’è oggi una destra (occidentale) che non propaganda più la femmina tutta casa chiesa e prole. Bensì quella tutta casa chiesa prole e politica. Maternità a oltranza e guerra, femminilità e armi, conservazione ed emancipazione.
Le donne di sinistra balbettano, prigioniere dello stereotipo opposto, non sanno come districarsi dal doppio imperativo, morale e politico: riconoscerla come una di loro (di noi) che ce l’ha fatta, e ce l’ha fatta esaltando il suo sesso, corpo e anima, e quindi ha modificato a vantaggio di tutte lo scenario simbolico della politica, e attaccarla a fondo per le idee e le politiche che rappresenta.
La via più facile, e la peggiore, ha ragione Giovanna Melandri, è quella alla Sabina Guzzanti: usare contro di lei (e contro quelle come lei) i più scontati argomenti misogini o addirittura anti-materni. Tornare indietro di decenni per sbeffeggiare il suo corpo di donna, la scelta della maternità difficile (ed esibita, perché no?, non sono esibite le belle bambine di Obama?), la forza del proprio sesso imposta sulla scena pubblica, anche se in modo grossolano.
Ha ragione Ritanna Armeni: una cosa è il femminismo e un’altra il protagonismo femminile. Non solo non coincidono, ma spesso sembrano andare in direzioni opposte. La novità strategica del femminismo, però, si misura anche da come, con quali argomenti, ci si rapporta al nuovo protagonismo femminile di destra. E se ne traggono insegnamenti a sinistra.