Oggi al comune di Roma accade qualcosa di speciale dopo che qualcosa di specialissimo è già accaduto. Mi riferisco al primo incontro tra il sindaco Alemanno e le associazioni omo-lesbo-bisex-tans cittadine di una settimana fa e al convegno “Gay Pride Made in Italy, quale modello?” del pomeriggio, organizzato dal DI’Gay Project romano, patrocinato dagli assessorati alle politiche culturali del Comune e della Provincia.
Mi aspetto scintille, di quelle che quando scoppiettano non bruciano ma accalorano piacevolmente i volti. Infatti: il tradizionale corteo del 7 giugno, a Roma, sarà il banco di prova di una svolta, e non solo perché è cambiato il colore politico dell’amministrazione capitolina. Infatti serpeggiano nuove domande tra il popolo organizzato delle e degli uguali-diversi fin dal giorno dopo l’imponente, e divertente, appuntamento dell’anno scorso: nudità o decoro? Provocazione o captatio benevolentie? Manifestazione ghettizzata per mostrare la forza dell’opposizione o presenza diffusa per affermare (come suggerisce Daniele Priori sulle note della canzone del Pride) che “tutta nostra è la città”?
Intanto per via dei rapporti con il sindaco “fascio” il movimento romano litiga. Chi vuole saperne di più, può consultare il sito www.donnealtri.it. Anche di questo oggi si palerà.
L’anno scorso al Gay Pride c’ero e non è da me scandalizzarsi per i giovani maschi seducenti in tanga o per le trans svestite da francobolli di stoffa. Notavo però che le lesbiche (mai così tante) erano tutte vestite come quando vanno all’università, al lavoro o stanno a casa. Perché? Lungi da me imputare la differenza all’innata purezza femminile, all’altrettanto innata impurità maschile e alla sfacciataggine connaturata alle trans: tutte e tutti siamo la storia che abbiamo alle spalle. Ho perciò molto apprezzato che tra le proposte presentate al sindaco dal Gay Lib ci sia quella di istituire un archivio storico aperto agli studiosi e agli studenti intitolato a Massimo Consoli, ricostruttore di storia, il quale, nella sua vita piena di affetti e di passioni, ha scritto libri esemplari e catalogato lo scibile omosex.
Una delle sue ultime genialate è legata al nome di Karl Heinrich Ulrichs giudice mancato a causa del suo coming-out ottocentesco e guglielmino. Colui che per primo apre una breccia contro le persecuzioni legali dei “diversi”, infatti, nasce in un paesino tedesco nel 1825 e muore a L’Aquila nel 1895. Già ammalato, Consoli si reca colà, va alla ricerca della tomba e la trova: sbriciolata, affossata e coperta da rovi. Smuove mari e monti, con la sua consueta grazia, informando tanto le autorità civili quanto quelle religiose su chi sia e perché sia così importante quel sepolto sconosciuto. Oggi la tomba è salva.
Ulrichs è troppo precursore dei tempi per esibire l’orgoglio del corpo omosessuale, ma la nudità maschile come affermazione della bellezza e della cura del sé, è il tratto che caratterizza la pamplettistica “di movimento” a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, per impulso di un altro grande tedesco: Hans Magnus Hirschfeld. Medico e filosofo, è il primo a creare una vera e propria corrente d’opinione a favore della depenalizzazione del reato di omosessualità. (Il che avrà corso solo dopo la seconda guerra mondiale.)
Hirschfeld vive nella capitale del Reich, dove i processi per omosessualità sono all’ordine del giorno e la galera per i rei, pure. Che però non lo toccano perché lui si muove come un pesce nell’acqua grazie alla fama di studioso e alle conoscenze nelle alte sfere dell’impero. Dirige un ambulatorio sanitario e un centro studi nei quali vengono curate e classificate tutte le devianze sessuali possibili: maschili, femminili e quant’altro.
La classificazione serve a fondare la teoria dell’omosessualità come “terzo sesso”, che al medico-filosofo sta molto a cuore perché è in consonanza allo spirito positivista del tempo che riduce il desideri alla predisposizione scientificamente dimostrabile, liberando il soggetto dalla responsabilità e dalla “colpa”. La cura consiste nella “terapia dell’accettazione” che vuol dire anche fornire ai pazienti un attestato di “malattia” per ottenere il permesso della polizia a indossare in pubblico abiti non conformi allo stato anagrafico.
Già, perché la passione del travestimento è clamorosa nei maschi (l’hit è il frac con calze e giarrettiere al posto dei pantaloni) ma piace anche alle femmine che adorano indossare tanto pantaloni neri e candide camicie a piegoline quanto fantasmagorici abiti da sera stile cafè chantant. Tutte e tutti trans-vestiten, vagano nella notte berlinese per club e ritrovi privati. Il loro luogo simbolo è il café Eldorado.
Nel 1910 Hirschfeld conosce il dottor Benjamin, sessuologo alle prime armi interessato a coloro che non stanno a proprio agio con il sesso genetico. L’intenzione dei due è di trovare una cura per lenire le sofferenze di queste creature. Ma arriva la guerra e poi il Nazismo: Hirschfeld emigra in Svizzera dove morirà, Benjamin si trasferisce negli Stati Uniti. A San Francisco apre uno studio di consulenza sessuale. Transessuali di ambo i sessi, che non sanno ancora di chiamarsi tali, accorrono perché vengono curati con miscugli di ormoni, mentre se vanno o vengono mandati dagli psichiatri vengono sottoposti alla psicoterapia freudiana e se non funziona per riportarli sulla via gentica, con l’elettroshock e la lobotomia.
Nel 1953 il dottor Harry Bejamin stupisce il mondo e l’America presentando al pubblico George William Jorgensen, ufficiale danese, operata e con seni da maggiorata. Il New York Daily News titola: “Ex-GI becomes blond beauty”. Bellezza bionda. Si capisce perché le trans da uomo a donna non resistano ai lustrini e alle paillettes, anche se non fanno per mestiere le mine vaganti del sesso commerciale ma le cassiere al supermercato.
E si capisce perché quella delle donne omosessuali sia tutta un’altra storia. Persecuzione legale vera e propria nei loro confronti non c’è mai stata. La loro sessualità, per quanto considerata pericolosa, è stata diluita nella “naturale propensione femminile alle perversioni”. Storicamente, del resto, è dimostrato che esse ricavano i loro spazi di libertà grazie al minor interesse che la legge e la scienza dimostrano nei loro confronti. Inoltre emergono, come singole e come “gruppo”, più tardi degli uomini.
Se l’eldorado berlinese degli anni 10, 20 e 30 dell’ultimo secolo del secondo millennio è il loro primo palcoscenico – un palcoscenico straordinariamente democratico che raduna dalle operaie alle contesse – la Parigi del pre e post terza guerra mondiale é “tutta la loro città”. Si muovono tra caffè e ristoranti, mostre artistiche, convegni letterari. Cosmopolite, vengono da tutti i paesi europei e dagli Usa.
Sono scrittrici, libraie, fotografe, giornaliste, pittrici, perfettamente integrate nell’industria culturale delle due epoche e nella società “mista” intellettual-borghese dei tempi. Tranne la scrittrice Gertrude Stein che infagotta la corpulenta figura in informi gonne e blusotti, sono elegantissime e per lo più molto femminili.
Una delle “regine”, l’americana Janet Flanner, corrispondente per il New Yorker, di bellezza severa strepitosa e tutt’altro che femminea, nelle serate più mondane indossa morbidi pepli. Solo in tempo di guerra, predilige la divisa militare US, ma le sue labbra sono sempre tinte di rossetto. Così la vediamo in una foto assieme a Ernest Hemingway. In un epoca in cui le società occidentali non sono ancora così di ma massa, il lesbismo é connotato da un tocco di classe e rappresenta le élites femminili. Questo vorrà pur dire qualcosa.