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L’eutanasia e l'”accabadora”

10 Agosto 2008
Pubblicato sul “Secolo d’Italia”, il 30 luglio 2008
di Roberta Tatafiore

Dai tempi immemorabili agli anni Cinquanta del secolo scorso, in Sardegna, numerosi erano i vecchi e i malati che passavano dall’al di qua all’al di là con l’ausilio di sa femina accabadora, l’altra faccia di sa maista du partu, maestra della nascita aiutata. Viceversa la accabadora (dal catalano acabar, accoppare, oppure da cabu, in lingua sarda: collo) era maestra della morte procurata perché sapeva abbreviare le agonie troppo lunghe e troppo dolorose.
Arrivava di notte avvolta nello scialle nero, complemento indispensabile al tradizionale abito femminile, nelle cui pieghe nascondeva il matzolu, una specie di martello di legno d’olivastro, duro e compatto, lungo 40 centimetri e con un’impugnatura che permetteva una solida presa. Chiamata dai familiari, veniva lasciata sola al capezzale del morente. Gli si avvicinava, gli parlava, lo accarezzava e concludeva la sua opera assestandogli un colpo secco alla nuca. Usciva di casa (stazzu o masseria, villa di città o un tugurio di sobborgo) veloce come era arrivata, circondata dal massimo riserbo e rispetto.
Dell’esistenza di questa figura sappiamo grazie a un libro recente di due medici legali sassaresi e docenti universitari, Alessandro Bucarelli e Carlo Lubrano, i quali nel 2003 hanno pubblicato per l’editrice Scuola Sarda il volumetto Eutanasia ante litteram in Sardegna – Sa femina accabadora.
Il libro si basa su una vasta raccolta delle fonti orali tramandate, per i periodi antecedenti al XIX secolo, delle fonti documentali della procura del Regno Sabaudo, della polizia dello Stato Italiano, delle parrocchie e della curia per i casi occorsi a cavalo tra il XIX e il XX secolo. Da essi risulta che le autorità civili e religiose sapevano ma tolleravano. Infatti, non c’è notizia di azioni penali o scomuniche nei confronti delle accabadoras e dei familiari dei morenti da lei uccisi.
Forse l’impunità per quelle eutanasie derivava dalla convenienza di non opporsi alla forza della tradizione. Forse Chiesa e Stato concordavano, tacitamente e inconsciamente, nel timore per questa figura di donna potente e schiva, ma capace di fare ordine nella società eliminando i destinati alla morte, per risparmiar loro lo spasimo dell’agonia e per mostrare ai vivi che si può avere meno paura della morte se la compassione è possibile.
L’ultimo caso di accabadura di cui si ha notizia ufficiale ha avuto luogo a Orgosolo nel 1952, quando la modernizzazione, e il controllo sociale esplicitamente esercitato dalle istituzioni laiche e da quelle religiose, già irrompeva anche nell’isola dei nuraghi. Nei soli sessant’anni che intercorrono dell’ultima accabadura a oggi, tutto è cambiato tranne la paura della morte e delle connesse sofferenze.
A me più che la morte fa paura l’agonia che la precede, quel passaggio umano troppo umano tra l’esistere e l’estinguersi in cui ciascuna fibra del mio essere lotterà contro la morte prima di arendersi. Nell’agonia, infatti, vedo la vera angoscia della fine. Dopo, per quanto ne posso capire, potrebbe trattarsi di una trasfigurazione, di una resurrezione, o di nulla.
Il dilemma sulla morte è fondante di tutta la cultura. Di più: si può dire che senza la morte non ci sarebbe stata la cultura. Ho quindi tirato giù dalla biblioteca la mia piccola raccolta di classici e mi sono accorta che i filosofi e i religiosi che hanno fondato il pensiero dell’Occidente si sono applicati per dare un senso alla morte, ma hanno tralasciato di dare un senso all’agonia.
Seneca, per esempio, ne parla come angoscia da attutire ricordando che cotidie morimur, ovvero che moriamo un poco ogni giorno e quindi ci abituiamo un po’ alla volta alla sofferenza per lo stillicidio connesso al disfacimento del corpo e dello spirito. “Ma quando l’uomo non può più applicarsi alla virtù”, scrive, “quando non è più libero, gli è concesso di ricorrere al suicidio”. Per Agostino d’Ippona la morte è una punizione del peccato originale. Una condanna terribile, ma anche fonte di riscatto per coloro che la subiscono in nome di Dio e della fede. Si interroga sul dolore nella separazione dell’anima dal corpo e conclude: “Qualunque cosa sia quella che, provocando nei morenti una sensazione dolorosa, elimina ogni sensazione se affrontata con devozione e fede rende più grande il merito della sopportazione, anche se certo non elimina la definizione della pena”.
Nel Simposio di Platone, ugualmente, non si tematizza l’agonia, ma si parla di morte in un modo diverso laddove vi si racconta che, per iniziativa di Socrate, viene chiamata a partecipare una donna, Diotima. E’ invitata come maestra che può chiarire al consesso degli uomini il mistero dell’amore. Lei parla dell’impulso di donne e uomini a unirsi nel rapporto erotico: “l’amore è procreazione della bellezza, secondo il corpo e secondo l’anima”, dice. E anche la morte, aggiunge, è perfezione di armonia e di bellezza sprigionata dal generare. “Perciò”, risponde a Platone che lamenta di non capire,“non stupirti se ogni creatura onora naturalmente ciò che da essa germoglia. Questa tensione e questo amore appartengono a ogni creatura perché essa mira all’immortalità”.
La morte risulta dunque sconfitta dalla potenza generatrice, la quale anche se ha bisogno del due per mettersi all’opera, parte dal e ritorna nell’uno del corpo materno, dove l’eros non è disgiunto dal logos. I filosofi l’ascoltano, ma continuano (e continueranno) a slegare il mondo delle idee da quello dell’esperienza e a darci della morte idee astrattamente consolatrici.
Legata, strettamente legata all’esperienza del morire, sa accabadòra è donna, alter ego della levadora e pertanto conosce come si da la vita e come la si toglie, senza essere toccata da bruttezza e disarmonia. Lei lenisce l’angoscia della morte perché è competente dell’interruzione dell’agonia.
A lei affiderei volentieri l’esecuzione delle mie volontà di fine vita perché è silenziosa, discreta, veloce. Le affiderei il dosaggio delle pillole se decidessi di suicidarmi, l’iniezione di morfina per addormentarmi definitivamente senza dolore, le pratiche per disinnestare, senza farmi soffrire, i marchingegni tecnologici che mi fanno respirare e nutrire, sia nel caso fossi vigile e potessi comunicare, sia nel caso il mio elettroencefalogramma risultasse piatto. Ma non è possibile perché lei non abita più la Sardigna dei miti e riti accettati dalla comunità arcaica. Nelle società moderne, tanto più in quelle attuali, non è possibile tollerare che un evento come la gestione della morte si sottragga al controllo dello Stato.
Si farà legge, promette il governo, sul testamento biologico. Per lo meno per porre fine al disordine che tutti conosciamo ogni qual volta un caso di irrisolta umanità deflagra sui media. Non sarà facile perché bisognerà tener conto del fatto che tanto tra i malati che soffrono senza prospettiva di guarire, quanto tra i parenti che si occupano, soffrendo, dei morenti a lungo, lunghissimo termine c’è una disputa tra quanti trovano buono e giusto continuare a vivere e quanti trovano altrettanto buono e giusto mettere fine all’agonia.
In questi ultimi mi riconosco. Non trovo infatti niente di edificante nel testimoniare la gratitudine per la vita rinunciando a controllare, per quanto è possibile, la morte. Ma non mi fido della Legge, delle sue astrattezze e dei suoi limiti. E rimpiango il luogo e il tempo in cui l’accabadora assicurava nella totale privatezza la morte senza agonia. Sopra la Legge.

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