Merci / Desideri

produrre e consumare tra pubblico e privato

La rivoluzione femminile nel lavoro

12 Aprile 2008
di Lia Cigarini

Le donne sono le abitanti naturali del post-fordismo, per competenze e conoscenze ma anche perché più dei maschi scelgono il lavoro autonomo perché lì è possibile un controllo personale dei tempi.
Qualche dato numerico può chiarire questa realtà: tra i lavoratori autonomi di seconda generazione il 57% dei collaboratori e il 34,5% dei professionisti senza albo è composto da donne. Esse poi stanno affollando gli albi professionali di avvocati, medici, architetti ecc. E sempre le giovani donne sono presenti nei lavori dove si accede per concorso e non per cooptazione (sanità 58,6%, università 40,8%, magistratura 40% ecc.).
Secondo me, la crescente e più significativa presenza di donne sul lavoro non è dovuta solo alle modificazioni dei circuiti produttivi ma anche al desiderio di indipendenza e maggiore libertà che le donne hanno manifestato in questi ultimi decenni, in ogni parte del mondo.

Il lavoro femminile non è un segmento del mercato del lavoro ma è il lavoro tout court.
Questo non viene preso in considerazione dagli studiosi del lavoro, dai giuristi, dai sindacalisti e dalla politica ufficiale, per un fenomeno di disattenzione verso le donne che domanda di essere interrogato.


A me interessa sottolineare un aspetto, e cioè che il protagonismo femminile nell’attuale modo di produzione ha un precedente importante nel fatto che le donne non sono entrate nel fordismo e non si sono modellate e politicizzate con i suoi paradigmi cognitivi e politici bensì a seguito della presa di coscienza e dell’azione del movimento femminista.
Le femministe in senso stretto sono state una minoranza ma il movimento si è irradiato in tutto il corpo sociale e ha così modificato il senso di sé nelle donne, così come i rapporti fra i sessi.

Narrando le une alle altre, nei gruppi di autocoscienza, la propria esperienza di cui la cultura sapeva troppo poco, e cercando le parole per renderla comunicabile, le donne sono finalmente apparse nello spazio pubblico così come inteso da Hannah Arendt, come «il luogo dove manifestarsi con la parola e con l’azione».
Non c’è dubbio che il lavoro sia un’articolazione fondamentale dello spazio pubblico.
Questo spazio pubblico che oggi accoglie le donne, ha potuto crearsi perché la separazione (riunione di sole donne) ha fatto un taglio creando un campo simbolico di autonomia femminile. 

La presenza delle donne nel lavoro, donne che la presa di coscienza rende protagoniste, è dunque l’elemento dirompente nel mercato e apre nuovi conflitti sul piano politico e simbolico, quello in cui, più della rappresentanza conta la rappresentazione di ciò che si vive e si vuole.


Io penso che la narrazione sia la pratica adatta per rompere il quadro paradigmatico che si costituisce quando si procede facendo del lavoro e dei lavoratori oggetti di analisi e studio, anziché farli parlare in prima persona, romperlo portando aspetti ignorati ed esclusi di un’esperienza nuova.

Sono consapevole che la narrazione come tale non rende conto pienamente né dei fatti né della soggettività, se stiamo ai requisiti di un’analisi esauriente. Ma il punto è un altro e riguarda l’attivarsi libero e consapevole della soggettività che cerca le forme per esprimersi e affermarsi.
La pratica della narrazione, infatti, ha permesso alla soggettività (femminile) di risvegliarsi, d’interpretarsi da sé e di dare conto della differenza sessuale come dimensione di umanità che la cultura del lavoro tendeva a ignorare: pratica che ruota intorno a un nucleo di esperienze che una/o vuole condividere con quelle che l’ascoltano, e produce essa stessa la scoperta di questo nucleo insieme alla sua condivisione da parte di altre, altri.
Elaborare un nuovo lessico sul lavoro, elaborare categorie, non a tavolino ma con quelle, quelli che vivono in quella stessa situazione e si urtano con gli stessi problemi, questo fa parte di quel processo narrativo che aspira all’interpretazione, alla significazione, all’azione politica.


C’è un altro modo per disfare i paradigmi interpretativi che non danno conto dell’esperienza (femminile) del lavoro? C’è, mi chiedo, un’altra strada per i lavoratori autonomi di seconda generazione, le cosidette partita Iva, per darsi un nome?


Dobbiamo renderci conto e render conto del fatto che il parziale superamento della divisione tra sfera produttiva e sfera riproduttiva non ha annullato lo specifico legame che le donne hanno con la vita e con il lavoro di cura. Esse studiano con passione e vogliono lavorare restando tuttavia legate al simbolico e alle pratiche della riproduzione dell’esistenza umana. Ecco perché diciamo che il lavoro con l’impronta femminile ha un significato più ampio e più profondo di quello pensato dagli uomini, o per meglio dire, è, nel suo fondamento, lavoro come congiungimento tra produzione e riproduzione dell’esistenza.
E qui io vedo un’irriducibile differenza tra donne e uomini nel lavoro, qui, si manifesta in pieno l’asimmetria tra i due sessi. 

La presenza delle donne nel lavoro dà una leva in più. Facendo leva sul lavoro femminile si può sottrarre il lavoro a molte astrazioni che lo hanno disumanizzato. E rilevando che al mercato «una donna porta tutto», anche la qualità delle relazioni sul posto di lavoro e nel lavoro di cura, si può pensare con più efficacia alla valorizzazione del capitale umano.


Sappiamo, per esempio (ma è più che un esempio) che la maggioranza delle donne infatti dice sì al lavoro e sì alla maternità. Ho sempre lottato perché fosse chiaro che la differenza femminile non è dell’ordine delle cose, che fa dire che le donne sarebbero diverse perché fanno i bambini: no, la differenza femminile sta nel senso e nel significato che si dà al proprio essere donna, ed è, pertanto, dell’ordine simbolico. Tuttavia mi sembra importante sottolineare che, nell’attuale organizzazione del lavoro pensata a misura dei desideri e dei bisogni degli uomini, il doppio sì delle donne al lavoro e alla maternità comporta contraddizioni nuove e feconde.


La prima: non si può parlare per le lavoratrici di tempo di lavoro bensì di tempi al plurale, quello di lavoro, quello della maternità, quello della competizione. Quanto la faccenda sia stringente, lo si vede dai dati statistici secondo cui due milioni e mezzo di donne lasciano il lavoro alla nascita del primo figlio, e un altro milione alla nascita del secondo.
La novità è che oggi pretendono poi di ritornare al lavoro fuori casa. La loro sofferenza nel lavoro nasce dunque da una continua lotta tra il tempo cronologico e quello invece della scelta dell’opportunità nel momento specifico. Perciò sono poco rappresentabili dal sindacato anche se fosse migliore di quello che è. 


Quel doppio sì è carico di significato: significa meno adesione alla mistica maschile del lavoro e un limite all’alienazione. Quando si tratta di guadagnare più soldi, mi diceva un avvocato lavorista, non c’è un limite all’alienazione maschile. Le donne non sono così, non interamente, per loro rimane aperto un gioco tra relazioni personali e relazioni imposte e regolate dal mercato. Non si consegnano completamente alla misura dei soldi e alla competizione.
Questa dialettica è ormai visibile, non è più silenziosa. 

Si può avere dei dubbi in proposito: Luisa Muraro teme che la troppa prossimità delle donne al mondo degli uomini, avvenuta con la modernità, e l’entrata in massa nel mondo del lavoro fuori casa, rendano difficile ragionare in termine di differenza. Lei sottolinea che, non a caso, il primo e sovversivo gesto politico del femminismo è stato quello di separarsi e di abbandonare le forme politiche maschili (partiti, istituzioni rappresentative ecc) e di costituire gruppi di sole donne cercando di costruire un sapere femminile, un altro sguardo sul mondo. Dice anche che sarebbe necessario coltivare la distanza tra le due culture.
Io rispondo, e mi sembra di avere spiegato il perché, che proprio nel lavoro la distanza tra desideri, bisogni e interessi delle donne è grande a causa del fatto che per esse il senso del lavoro è determinato dalla riproduzione dell’esistenza umana e del suo simbolico.

Il nostro, di donne, tenace lavoro sul simbolico ha dato autonomia, strumenti alla singola, ha prodotto una massa di testi di pensiero di narrazione, ma l’altrove e l’altrimenti della politica delle donne è indubbiamente poco visibile sulla scena pubblica ufficiale, comprese le organizzazioni della cosiddetta sinistra radicale.


Il problema della visibilità sta nel fatto che le forze presenti sulla scena pubblica pur avendo perso presa sulla realtà che cambia occupano tutto lo spazio visibile, i giornali, la televisione ecc. e finiscono per falsare il nostro stesso senso della realtà. L’irrealtà tende a prendere il sopravvento. Si arriva al punto di accusare di debolezza e di pochezza le pratiche che danno senso a quello che siamo e sono le uniche a volte ad avere qualche efficacia.


Io come molte altre/altri, sono ormai orientata a prendere le distanze da questo bisogno di visibilità e invece di potenziare l’attenzione al vissuto e all’invenzione di pratiche che ci vincolano al reale dandoci, insieme, il gusto di stare al mondo, che vuol dire anche la possibilità di lavorare con agio.



Questo testo è un sunto: appartiene a una serie di riflessioni – di L. Cigarini, C. Marazzi, K. Neundlinger, D. Banfi, L. Romano, S. Bologna – in forma di opuscolo sul saggio di Sergio Bologna “ Ceti medi senza futuro? “

Featuring Recent Posts WordPress Widget development by YD