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Aborto uguale a pena di morte? No, grazie

9 Gennaio 2008
di Franca Chiaromonte e Letizia Paolozzi

Eravamo felici per il successo della moratoria sulla pena di morte, ottenuto principalmente grazie alla tenacia dei Radicali, quando è arrivata la proposta di moratoria per l’aborto da parte di Giuliano Ferrara.
Un pugno nello stomaco. E un interrogativo: nel primo caso è lo stato a comminare la pena di morte. Nel secondo, si realizzerebbe un gesto femminile di terribile e violento dominio sulla vita. Dunque, noi che abbiamo abortito dovremmo considerarci delle assassine?
Conosciamo donne che vivono come un dramma l’aborto. Ma conosciamo anche donne che il gesto di abortire lo considerano una liberazione. E ne abbiamo incontrate che affidano all’aborto la possibilità di non tenere quel bambino. Possibilità dettata da cause strazianti ma anche da ragioni ai nostri occhi futili, incomprensibili.
Donne che patiscono e donne che ridono. Eppure nessuna di loro è un’assassina.
Il nostro sesso queste cose le sa. Sa del corpo femminile differente da quello maschile. Un corpo capace di mettere al mondo, di accogliere, di diventare due mentre il corpo dell’uomo, del futuro o non futuro padre, partecipa al progetto con un ruolo un tantino meccanico.
Che poi l’asimmetria, l’alterità, la differenza della femmina dal maschio si sia trasformata in gerarchia del maschile sul femminile è storia nota. Storia di un ordine simbolico che per merito delle donne ha cominciato a disgregarsi. Ma il conflitto (non la guerra) tra i due sessi continua e difficilmente lo si può considerare concluso.
La legge 194 rappresenta un compromesso rispetto, appunto, al conflitto tra i sessi. D’altronde, con la 194 l’aborto, se non viene praticato nelle strutture pubbliche, rimane un reato. Meglio sarebbe stato (come ricordava sulle pagine del suo giornale Roberta Tatafiore) dare retta a quelle femministe, noi tra loro, che proponevano non di legalizzare ma di depenalizzare l’aborto.
In effetti, il femminismo non ha mai parlato di diritto all’aborto. Perché l’aborto non è un omicidio ma uno scacco femminile legato alla sessualità maschile. Una sessualità che non può e non sa separare il piacere dalla riproduzione.
Per evitare lo scacco le risposte sono molteplici: gli anticoncezionali, l’educazione sessuale, la prevenzione. Il guaio è che il corpo delle donne spesso si ribella. Per sottrarsi all’idea che tocchi solo a lei portare il peso, la responsabilità dello “stare attenta“?
Il problema è degli uomini (l’unico ad averlo colto ci pare sia stato il professore Umberto Veronesi). Eppure, il direttore del Foglio non nomina volentieri la sua differenza. Probabilmente non si fida degli uomini perché, da maschio, ne conosce l’intemperanza, la distrazione, il disordine.
Oggi (ma anche in passato, a più riprese, con manifestazioni femministe di protesta come quella di due anni fa che si è svolta a Milano) sembra che il luogo del conflitto torni a essere quel corpo femminile e la sua capacità di generare. Di qui la ri/nascita di una sorta di colpevolizzazione del sesso femminile, benché veniamo rassicurate che la legge 194 non si tocca. O si toccherà appena un poco. Ferrara ci assicura che si tratta di discutere, riflettere, portare avanti una grande campagna culturale.
Può darsi. Ma qual è il risultato della moratoria fino a questo momento?
Abbiamo ascoltato delle risposte nelle quali viene tracciata una stretta analogia tra la differenza femminile e la maternità. Quel corpo può – se vuole, se lo decide – mettere al mondo un figlio? Allora, si è donne se si è madri. Di qui a considerare un sesso, il nostro sesso, un puro ricettacolo, un contenitore, il passo è breve.
D’altronde, è Ferrara a scrivere: “Noi vediamo nel seno delle gestanti quel che non vedevamo prima, che non esistono feti ma bambini. Che questi bambini sentono, soffrono gioiscono, reagiscono a stimoli come la musica e altri vari“. Certo, la pubblicità della Ferrarelle è meravigliosa ma lì una mamma c’è mentre nelle sue parole e nei commenti di esperti, preti, scienziati, giuristi, teologi, il bambino sembra sottratto al legame con il corpo materno. Quasi non le appartenesse.

Veramente, somigliate al “samaritano che cerca il suo prossimo nel ventre delle donne“ descritto da Barbara Duden quasi venti anni fa.
Può darsi che simili reazioni si verifichino perché gli uomini non si sentono più al centro dell’universo. Ma, se almeno lo ammetteste, se nominaste una condizione di crisi (che poi si trasforma in crisi di senso della vita e della politica), le donne sarebbero probabilmente disposte a darvi una mano. Invece di questa condizione, per certi versi così difficile, non riuscite a parlare. E vi producete in “pensate“ bizzarre e paradossali.
Quando poi Ferrara cita le molte decine di milioni di bambine che in Asia sono escluse “dalla libertà di nascere“, a noi si stringe il cuore. Siamo sempre e ancora all’odio nei confronti del nostro sesso. In Asia, mancano all’appello novanta milioni di donne. Non sono nate o sono morte piccolissime, vittime di aborti selettivi, infanticidi. In Cina, ogni anno sono soppressi 500.000 feti di bambine. In India lo squilibrio tra maschi e femmine, a favore dei maschi, è anch’esso terribile. Ma quali sono le cause? Principalmente, il fatto che in Cina sono i figli maschi a ereditare i beni della famiglia e a occuparsi dei genitori anziani. Si calcola che nel 2020 ci saranno moltissimi uomini soli, in branco, portati a fare la guerra perché non fanno l’amore. Dunque la causa di questi aborti è una serie di radicati pregiudizi maschilisti in quelle società.
Dopo aver insistito sulla moratoria universale (e qui sì, sarebbe importante continuare una discussione che riguarda l’Onu, come ha fatto, sempre sul Foglio, Eugenia Roccella), il direttore, torna alla poltiglia di casa nostra. Forse perché “piccolo è bello“? Comunque, ci sembra ansioso che la sua moratoria divenga iniziativa politica nostrana. Ora insiste per presentarla davanti all’uditorio del Pd. Eccesso di passione per la leadership veltroniana? Tentazione di infierire sul già delicato rapporto interno tra laici e cattolici?
Queste le motivazioni, altre ne potremmo trovare, per cui l’equiparazione pena di morte-aborto non possiamo proprio accettarla. Tuttavia, la discussione che è seguita alla proposta, è stata interessante. Anche tanti uomini (non solo sorelle di sesso) hanno preso la parola; tante sono state le reazioni ragionevoli giacché nessuno, a partire da noi due, intende negare l’elemento di preoccupazione per la vita. Riflettendo, non ci siamo mai aggrappate alla parola laicità. Può darsi che sia un nostro difetto ma sulla primazia femminile quanto al dare la vita e al negarla, laiche non siamo mai state.

Questo articolo è apparso anche sul Foglio

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