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Perchè dire sì ai matrimoni gay

25 Dicembre 2007
di Alberto Leiss

“Cinquant’anni fa, in Italia, le donne non avevano diritto di voto. Quarant’anni fa, in alcune parti degli Stati Uniti, i matrimoni interrazziali erano illegali. Trent’anni fa l’omosessualità era classificata tra le malattie mentali”.
Leggendo il libro di Vittorio Lingiardi “Citizen gay” (“Famiglie, diritti negati e salute mentale”, Il Saggiatore 2007, pag.157, euro 12,00), siamo indotti a riflettere sulla velocità con cui alcuni aspetti fondamentali del nostro modo di vivere e di pensare noi stessi siano profondamente mutati. Scopriamo che lo stesso termine “omosessuale” è stato inventato solo nella seconda metà dell’ottocento da uno scrittore ungherese, Karoly Maria Kertbeny, che lo usò – in un pamphlet anonimo – per contestare una legge prussiana che puniva gli atti sessuali tra le persone di sesso maschile.
Ed è recentissima – il 18 novembre 2003 – la sentenza della Corte suprema di giustizia del Massachusetts secondo la quale non esistono “ragioni costituzionalmente adeguate per negare il matrimonio civile a coppie dello stesso sesso”. Anche se norme volte a legalizzare questo tipo di unioni sono state applicate precedentemente in America e in altri stati, è questo – annota Lingiardi – il “primo riconoscimento legale degli stessi diritti civili in campo matrimoniale per coppie etero e omosessuali”.
L’autore, che è psichiatra e psicoanalista, sostiene che ammettere il matrimonio civile per le coppie omosessuali farebbe bene alla democrazia, servirebbe a combattere l’omofobia, e soprattutto migliorerebbe lo stato di salute mentale e fisica di chi si sente attratto dal suo stesso sesso, o comunque si colloca nel mondo che con una sigla – Lgbt : lesbiche, gay, bisessuali, transgender – indica tutti i cittadini e le cittadine che non si riconoscono nell’identità di genere “tradizionale”, per cui il matrimonio sarebbe un diritto esclusivo per coppie eterosessuali, e soprattutto finalizzato alla riproduzione.
Chi fa parte di questi “mondi a parte”, oggetto di pregiudizi e discriminazioni, soffre di un “minority stress”, un disagio psicologico in cui spesso viene introiettata la dimensione omofobica, e che secondo varie ricerche tende a diminuire visibilmente nei paesi in cui cade il tabù del matrimonio vietato alle persone omosessuali.
L’originalità del libro sta molto nella valorizzazione di quanto i risultati della ricerca scientifica in campo medico, antropologico e sociologico ci dicono su alcune delle questioni che il mondo della politica, della religione e dei media ci sta abituando a definire come “eticamente sensibili”. L’associazione degli psichiatri americani (APA), per esempio, ha preso posizione da tempo contro le tesi che definivano l’omosessualità un “disturbo” diagnosticabile, e quindi contro le “terapie riparative”, e nel 2005 si è pronunciata a favore del riconoscimento del diritto al matrimonio civile. Mentre ricerche promosse, sempre in America, dall’American Academy of Pediatrics, hanno via via confutato le opinioni di chi sostiene dannoso per i bambini essere allevati da coppie omosessuali. Se mai è stato osservato che conseguenze negative per queste famiglie – che nei fatti ormai si vanno sempre più diffondendo nel mondo – è il permanere di comportamenti e norme discriminatorie nei loro confronti. Ne soffrono, ovviamente, grandi e piccini.
In Italia il dibattito pubblico su omosessualità e omofobia si è di nuovo infiammato intorno all’introduzione – per la verità assai sgangherata nelle modalità e nel merito – del famoso emendamento al “pacchetto sicurezza” che assimila i reati di razzismo previsti dalla “legge Mancino” a quelli compiuti contro persone di diverso orientamento sessuale. Personalmente, penso sia alto il rischio che con questo tipo di norme si cada in una visione illiberale del reato di opinione, sia che si tratti di razzismo, sia di omofobia.
Ma il punto qui è che il voto contrario della senatrice Binetti, del Pd, ha messo in luce un problema profondo di una parte del cattolicesimo sul tema dell’omosessualità. E anche dei conservatori come Marcello Pera, che protesta sulla “Stampa” per la surrettizia introduzione nella legge dell’”identità di genere”, sostitutiva di quella “di sesso”. Una sovversione non solo della nostra “tradizione e civiltà”, ma anche della “nostra natura”.
Nel libro di Lingiardi si cita a un certo punto il documento del 1986 intitolato “Cura pastorale delle persone omosessuali”, redatto dall’allora cardinale Ratzinger, in cui, con una formulazione ripresa anche in anni molto più vicini a noi, si dice che “la particolare inclinazione della persona omosessuale, benché non sia in sé peccato, costituisce tuttavia una tendenza, più o meno forte, verso un comportamento intrinsecamente cattivo dal punto di vista morale”. E più oltre, citando S.Paolo, si afferma che solo nella relazione coniugale – ovviamente eterosessuale – “l’uso della facoltà sessuale può essere moralmente retto. Pertanto una persona che si comporta in modo omosessuale agisce immoralmente…”. E’ persino comprensibile che chi afferma queste tesi non voglia rischiare di incorrere in un reato. E in questo può avere ragione.
Ma può chi ha una concezione laica dello stato cedere sul principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge?
Non un pericoloso estremista massimalista, ma il filosofo democratico americano Ronald Dworkin, sostiene nel suo recente saggio sulla “democrazia possibile”, volto a aprire un “nuovo dibattito politico” con i conservatori del suo paese, che la questione del matrimonio gay è un principio al quale non si può rinunciare. Il matrimonio può essere considerato “una risorsa sociale dal valore insostituibile per coloro a cui viene offerta”, argomenta, e se “consentiamo l’accesso a questa meravigliosa risorsa a una coppia eterosessuale e lo neghiamo alla coppia omosessuale, consentiamo all’una, ma non all’altra, di realizzare qualcosa che per loro ha molto valore. Che diritto ha la società – si chiede Dworkin – di operare una simile discriminazione?” Tanto più che “ spesso l’amore tra due persone dello stesso sesso è forte quanto quello tra due persone di sesso diverso”.
Si può naturalmente dissentire da questa visione del matrimonio. Lingiardi ricorda le critiche che anche alcune tendenze radicali del movimento gay e lesbico e di quello femminista hanno indirizzato alla richiesta di “omologarsi” all’istituzione matrimoniale. Tuttavia anche chi è contrario per principio al matrimonio dovrebbe riconoscere il diritto di chi lo desidera di potersi sposare.
Un neoconservatore come Roger Scruton si oppone al matrimonio tra omosessuali – anche se si mostra rassegnato alla sua ineluttabilità – in nome della difesa della “differenza sessuale”, che a suo dire sarebbe “censurata” dal femminismo. Scruton evidentemente conosce poco il pensiero femminista della differenza (anche se nel suo “Manifesto dei conservatori” cita Luce Irigaray). Credo che per ammettere il matrimonio tra persone omosessuali non si debba necessariamente aderire alle teorie che fanno del “genere” un mero prodotto della cultura, anche se il modo in cui viviamo la differenza sessuale, che è la nostra natura, è sicuramente un fatto culturale.
Si potrebbe anche condividere il valore di redenzione dell’amore, per uomini e donne, che Ratzinger, divenuto Papa, ci propone nelle sue encicliche. E sostenere però che questo amore è certo possibile tra persone che – credano o no nel Dio di Ratzinger – appartengono allo stesso sesso. Un amore che forse non può pretendere un sacramento – lo può chiedere – ma un serio contratto civile sì.

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