Una volta li si sarebbe chiamati “esercito di riserva”. Ma in quel tempo lì poveri erano i senza lavoro di una società fondata sul lavoro. Adesso essere “senza” corrisponde alla condizione di chi non consuma o lecca solo qualche briciola: il perdente predestinato.
Non “il perdente radicale“ di Henzesberger, che piazza bombe nella metropolitana. Ma il fastidioso lavavetri, il venditore ambulante, il questuante, il parcheggiatore abusivo, il writer, l’ubriaco, il tossico, la prostituta, il transessuale.
Perdenti fastidiosi perché la loro povertà è visibile. Ostentata. E si vede. Miserabili che siamo costretti a costeggiare, a sfiorare. Mi perseguitano al semaforo di piazza della Rovere; occhieggiano alla mia borsa al bar; mi si parano davanti con la Hermes taroccata in via Bocca di Leone; fanno pipì, ma sì, proprio pipì sul marciapiede di via Conte Verde.
A questi incontri ravvicinati manca solo l’homo incendiarius , il pastore-contadino “solitario arcaico, maschio, anziano” (definizione data sul Corriere della Sera da Cesare Patrone, capo del Corpo forestale dello Stato). Vita quotidiana con i poveri, i marginali, quelli che non avranno mai successo.
Cosa fa la differenza tra noi e loro, tra perdenti e vincenti, tra consumatori e miserabili? Un bracciale di galalite anni Quaranta; una vecchia Punto; il cibo acquistato al supermercato la domenica mattina. Sono, siamo un gran numero di lavoratori e lavoratrici, impiegati e impiegate, pensionati e pensionate che magari del consumo vistoso leccano le briciole ma volete mettere il bracciale anni quaranta con il corpetto del trans che s’avanza sulla Flaminia?
Ora, può succedere che noi, così poco vincenti ma comunque assolutamente al di sopra dei perdenti, diventiamo le vittime dei miserabili. L’assessore di Firenze Cioni, la sindaca di Genova, Marta Vincenzi (ora anche la sindaca di Pavia e chissà quanti seguiranno), il ministro degli Interni sono corsi ai ripari. Ogni sindaco con il suo cahier de doleances; Giuliano Amato ascolta, raccoglie e raggruppa i poveri nel “Pacchetto sicurezza”. Per ovviare al “degrado urbano“, per togliere dalle strade “il triste spettacolo“ così da combattere l’illegalità diffusa, la microcriminalità.
Delle disposizioni che già esistono ma sono poco e male applicate (per mancanza di mezzi, per disfunzioni della giustizia, perché la magistratura tanto è stata veloce quando si è trattato dei tangentari quanto sul racket dei parcheggiatori abusivi sembra lentissima), al momento non si parla.
Il ministro degli Interni accusa la sinistra di essere troppo indulgente. State svegliando ”la tigre della reazione“. Non è il momento di gingillarsi con problemi giuridici, morali, deontologici?
Amato alza la polemica, poi si lamenta del rumore: forse un ministro con competenze così delicate dovrebbe parlare di più con i provvedimenti – se sa quali prendere – e meno con le esortazioni mediatiche.
Comunque, arriva l’ora della repressione.
Ma i comportamenti illegali non da oggi dovrebbero essere repressi. Per mano della polizia, non dei sindaci. Poi c’è “la tolleranza zero“. Buona, appunto, per i media. Soprattutto d’estate quando le vendite dei giornali scendono. E allora giù con la testimonianza della signora aggredita dal lavavetri oppure della pensionata borseggiata in metropolitana e l’intervista al cliente al quale piacciono “le ragazzine fresche“.
L’assessore Cioni, la sindaca Vincenzi, il ministro dell’Interno in effetti hanno parlato molto di donne impaurite, stressate, esacerbate. Sfruttate. Vero. Tuttavia, le donne sono anche le più interessate a quei rapporti, relazioni, legami che tengono insieme le persone. E che, alla fine, tengono insieme la società più dei sindaci, degli assessori, dei segretari di partito (di tutti i partiti, nessuno escluso) e dei responsabili di dicastero.
E’ una contraddizione, certo. Ma andrebbe guardata senza miopia, distinguendo tra problemi diversi e provando a indicare delle soluzioni in modo non arrogante, con molta sensibilità. Di fronte ai sintomi di disorientamento, chi governa ha il compito di spiegare (cosa che si verifica nei fatti e non nelle 280 cartelle di programma) se pensa che i legami sociali vadano comunque rinsaldati oppure immagina una società degli slegami dove l’unica sponda certa sia quella dell’ordine pubblico. Quanto alla “tara culturale che affligge una parte della sinistra“ Giuliano Amato ha troppa esperienza per non ricordare che la minaccia di possibili “svolte fasciste“ è sempre stata un vezzo retorico di una parte della sinistra. A questo punto, abbiamo ragione di dubitare che l’impegno delle istituzioni a difesa delle “vittime“ dei lavavetri sia pura e semplice demagogia.