E’ arrivato il momento di cominciare a parlare di SEWA, il sindacato autonomo di donne per il quale lavoro su incarico di Progetto Sviluppo, l’organizzazione non governativa per la cooperazione internazionale che fa capo alla Cgil.
Innanzitutto l’intero nome: Self employed women’s association. E’ un sindacato? E’ un movimento femminista? E’ un’associazione di donne?
E’ decisamente un sindacato e le sue dirigenti ci tengono molto a sottolinearlo. Ma è un sindacato tutto particolare: un sindacato senza la classe operaia, sia perché qui obiettivamente non esiste un modello produttivo basato sulla produzione sistematica su grande scala, sia perché non esiste nemmeno la storia e la mitologia della classe operaia come noi in Europa l’abbiamo vissuta, a maggior ragione non esiste fra le donne.
Ma è anche un movimento di massa di donne, con 500.000 iscritte nel solo Gujarat ( la regione di Ahmedabad e il punto di forza di Sewa) e altre 300.000 circa nel resto dell’ India, dove l’associazione sta cercando di mettere radici. Un movimento di donne perché, come tutti i movimenti femministi, è ben consapevole che il lavoro non è tutto e non è nemmeno necessariamente la chiave della liberazione: salute, controllo delle nascite, costruzione creativa di qualche soluzione di welfare, microcredito, cooperative, assicurazioni, alfabetizzazione e crescita del senso di sé sono strumenti di libertà altrettanto importanti. Ma è un movimento femminista in cui di sessualità si parla poco, discretamente e con tutti gli accorgimenti di pudore adeguati alla sensibilità delicatissima di questo Paese in questo campo, che è proprio il caso di definire minato.
Un sindacato senza classe operaia, un movimento femminista senza radici nel filone americano ed europeo della “sexual liberation”. Insomma una creatura tutta indiana, ma niente affatto provinciale, anzi, con nessi, contatti e riconoscimenti in tutto il mondo.
Torniamo al nome: chi sono le “self employed women”? Sigaraie di bidi (la piccola sigaretta indiana), stampatrici di tessuti, ricamatrici, materassaie e riutilizzarici di tessuti vecchi per coperte e tappeti, manovali e trasportatrici di mattoni e pietre nei cantieri, venditrici di frutta, verdura, tessuti e pentole, lavandaie, cuoche e cameriere di famiglie, scuole e ospedali, raccoglitrici di carta e metallo nelle immondizie e riciclatrici. L’elenco è puntiglioso, ma lontanissimo dall’essere esauriente: i mestieri umili delle donne indiane sono infiniti. Bene, in una concezione tradizionale dell’organizzazione del lavoro si direbbe che si tratta di lavori “marginali”. E’ proprio contro questa idea di “marginalità” che Sewa fa la sua battaglia culturale e sindacale. Come si possono definire marginali – obietta- tutti quei lavori non formalmente contrattualizzati che coinvolgono circa il 90% delle donne indiane? Di qui anche il nome orgoglioso “self employed women” : le donne più povere – mi spiegano- spesso pensano di non lavorare affatto; il loro non è che il prolungamento del lavoro familiare in una cornice che spesso è concretamente la stessa, la stanza nello slum o la capanna del villaggio, oppure è la stessa parapsicologico perché i bambini sono al seguito e dove si muove una donna si muove sempre anche una piccola eco di villaggio, fatta di oggetti, di una pentola con un po’ di cibo, di una rete di corda per riposare.
Qui l’analfabetismo femminile è ancora intorno al 60% e la pedagogia della dignità, basata sulle piccole cose che sono anche grandi simboli, per Sewa è decisiva: dunque io donna, membro di Sewa, non sono una povera cosa, una marginale; sono una donna che lavora, che si autoimpiega e che per farlo utilizza dei mezzi di produzione.
Proprio così, dei mezzi di produzione: il tabacco per fare i bidi, il carretto e le verdure per il mercato, la stoffa da stampare, i fili per ricamare, gli stracci da trasformare, etc..
E qui il ruolo di Sewa come sindacato conta, eccome se conta, perché quasi sempre questi mezzi di produzione sono nella mani di mediatori che sono anche strozzini e giocano sull’isolamento e la scarsa stima di sé delle lavoratrici. Le prime epiche lotte di Sewa cominciano tra il ‘68 e il ‘70 contro i mediatori del tabacco per tenere basso il prezzo delle foglie grezze e strappare un prezzo minimo per la sigaretta (e ottenere anche che venga pesata e non valutata a capriccio del padrone), continuano con i mediatori dei tessuti usati che riducono alla fame le donne Vaghari, una piccola minoranza tribale che sopravvive facendo coperte dagli stracci, proseguono nel 1980 con un vero corpo a corpo con la temibilissima polizia di Ahmedabad che chiede il pizzo alle venditrici di frutta e verdura di Manek Chowk, l’antico e affollatissimo bazar della città. In tutti questi casi Sewa si comporta esattamente come un sindacato classico, naturalmente di lavoratrici molto povere con una necessità vitale di non interrompere il lavoro se non simbolicamente o per poco tempo: sensibilizza le donne, le mobilita, organizza manifestazioni, apre delle vertenze con i padroni, convince la lavoratrici a ritardare la restituzione della merce trasformata fino a vertenza finita.
Ma nello stesso tempo si interroga. E se questi benedetti mezzi di produzione li possedessimo noi?
Ma, per capire meglio come si interroga, bisogna sapere di più della storia di Sewa, del suo debito verso Gandhi, della sua straordinaria leader Ela Bhatt, del suo percorso verso l’autonomia.
Nel 1915 Gandhi, dopo aver concluso l’esperienza sudafricana e aver ripreso contatto con tanti luoghi dell’India, decide di stabilirsi nella sua terra natale, il Gujarat. Fonda il suo Ashram alla periferia di Ahmedabad. Una donna di grande valore che gli è molto vicina, Ansuyabehn, cui ancora oggi è dedicato il giornale di Sewa, comincia a organizzare la branca femminile del sindacato dei tessili (TLA).
Dopo tanti anni e tante vicende politiche e organizzative il richiamo a Gandhi in Sewa è ancora fortissimo.
Non solo per i contenuti politici, la lotta per la dignità e l’emancipazione dei poveri e l’assoluto rifiuto del pregiudizio castale, ma anche per la scelta delle forme di azione e per l’ispirazione spirituale. C’è qualcosa che va oltre la non violenza ed è la più trasparente lealtà: anche nelle battaglie più dure l’avversario non è mai un nemico e va rigorosamente rispettato; gli vanno dette apertamente le proprie intenzioni, i tempi e i modi della vertenza che si vuole avviare e, senza menzogne, quali sono i punti su cui non si cederà . In più la religione è concretamente vissuta dalle donne di Sewa in un modo che non è facilissimo spiegare al lettore occidentale. Ogni mattina pregano (e io con loro, pur non capendo quasi un parola, ma mi piace e mi rasserena). Non si prega una religione particolare: si mescolano preghiere e canti hindu a preghiere musulmane, a sutra buddisti. Esattamente come faceva Gandhi, convinto come era, diversamente da buona parte del gruppo dirigente politico del Congresso, che un paese senza religione (senza spiritualità) è morto, ma che nello stesso tempo non esiste religione “rivelata” perché tutti i percorsi di consapevolezza spirituale hanno lo stesso valore.
Per molti anni le donne continuano un impegno tutto sommato abbastanza tradizionale all’interno del sindacato dei tessili fino a che nel 1968 emerge una leader di livello nazionale e forse non solo: Ela Bahtt. Ela Bhatt comincia ragionare a tutto campo sulle donne. Il 93% delle donne che si avvicinano al sindacato in quegli anni sono analfabete, il 97% vivono negli slum, in media i figli viventi per ognuna sono quattro, ma più che altrettanti sono i bambini perduti, o per la mortalità infantile, oppure per i parti prematuri. Molte altre lavoratrici dei cosiddetti settori informali (venditrici, sigaraie di bidi, produttrici di incensi,…) si aggiungono alle donne impegnate nelle varie attività tessili e nel 1972 nasce Sewa, ancora organizzata all’interno del TLA, ma già madre di se stessa.
Infatti non è solo il tratto, diremmo noi, confederale, a cambiare il contesto, ma molto di più. La vera rivoluzione è la scoperta della differenza di genere. E il primo terreno su cui le donne di Sewa la affrontano è quello del credito. Negli anni ‘70, sotto il governo di Indira, è possibile per i poveri chiedere un credito alla Bank of India. Ma le attiviste di Sewa, che all’inizio cercano di mediare fra la Bank of India e le donne povere, si accorgono che le cose non funzionano. Spesso le donne non restituiscono, sono passive e, poiché il governo “perdona” piccoli debiti, non capiscono perché le sindacaliste di Sewa si affannino tanto a far tornare i conti. Più spesso le donne vengono umiliate; il contatto con un impiegato di ceto medio è disperante: si sbagliano gli orari, si viene con i figli che fanno un caos inaudito per il buon ordine di una banca, non si sa firmare e nessuno ha la pazienza di spiegare una procedura complessa a una donna analfabeta. Così nel 1974 Sewa fonda la sua banca per il risparmio e il microcredito alle donne povere. Che da allora ne ha fatta di strada: oggi tiene nelle sue casse circa 300.000 depositi di risparmio che ammontano mediamente a 10.000 rupie all’anno per risparmiatrice, circa 170 euro, una cifra enorme per una donna povera indiana. Il prestito, a tassi molto bassi, può essere di tre o quattro volte il risparmio. L’essenziale (e su questo l’intervista della bancaria Sewa alla cliente è molto scrupolosa e ha anche intenti pedagogici) è che il prestito sia chiesto per scopi produttivi, per possedere, appunto, direttamente quei mezzi di produzione, quelle merci da trasformare che consentano una qualche autonomia da padroni e mediatori. Una delle tragedie contro cui Sewa si batte è la devastazione della vita dei poveri da parte degli usurai che profittano di alcune tradizioni fortissime in tutte le società contadine, ma in India più che altrove: in particolare la festa di nozze e la dote delle figlie che possono portare sul lastrico anche famiglie relativamente assestate. Ma quello che più conta è la dignità: gli orari sono scelti in modo da conciliarli con il lavoro delle donne, le “bancarie” si spostano negli slum e nei villaggi e a raccogliere il risparmio o a distribuire le quote di credito, torme di bambini si aggirano per la banca e la foto, non un segno umiliante, sostituisce la firma.
Tuttavia, nel preparare l’avvio della banca, Sewa si accorge anche di un’altra cosa: che le debitrici meno solerti nel restituire il prestito alla Bank of India sono le neo madri e le vedove. La fragilità delle donne nella relazione con uomini assai poco protettivi è scioccante: nessuno si cura dell’alimentazione della donna in gravidanza e della neo madre, tutti chiedono alla vedova un mese di lutto nel più assoluto isolamento, ma nessuno si preoccupa di come mangerà. Sewa organizza un piccolo sistema assicurativo che, nel caso delle neo madri, verrà fatto proprio dal governo nazionale e varato come piano nazionale di assistenza:contro un impegno economico diretto di quindici rupie all’inizio della gravidanza, la neo madre ne riceverà cento alla nascita del bambino, più un chilo di ghee (un burro chiarificato particolarmente nutriente che si conserva a lungo) e le cure mediche al parto e nei primi mesi di vita del bambino.
Insomma l’orizzonte si allarga: via via nascono i centri per la salute e per la vendita di medicine a prezzi calmierati, i centri per la prima infanzia, le associazioni assicurative, le cooperative di produttrici.
Siamo all’inizio degli anni ottanta e si profilano nuove sfide per Sewa, prima fra tutte quella dell’autonomia definitiva che avverrà nel 1981, dopo una rottura traumatica con il sindacato dei tessili.
Il Gujarat, la regione di Ahmedabad, come del resto buona parte dell’India, è percorsa per tutto il secolo da terribili conflitti inter comunitari ( come qui vengono chiamate le frequenti esplosioni di odio fra indù e musulmani, e in alcuni casi, sikh) o inter castali.
E’ proprio un conflitto del secondo tipo, nel 1981, a accendere la miccia della clamorosa rottura fra le donne di Sewa e il TLA ( il sindacato dei tessili). Nel 1980 il Congresso ha vinto le elezioni insieme a una coalizione molto progressista, anche dal punto vista di un’inedita autorevolezza delle caste più basse: un dalit (intoccabile) è ministro degli affari interni dello stato e addirittura un rappresentante delle minoranze tribali detiene il decisivo portafoglio per l’irrigazione delle campagne.
E’ in questa atmosfera politica che l’anno successivo viene decisa una quota fissa di posti da riservare ai dalit nella facoltà di medicina di Ahmedabad . Gli studenti della caste alte, sostenuti anche dalla destra induista che comincia a preparare la sua irresistibile ascesa, organizzano manifestazioni e ribellioni di una violenza infuocata: 40 morti e tre mesi di coprifuoco in città.
Pochi leader politici hanno il coraggio di affrontare la furia dei pregiudizi, ma Ela Bhatt sì. Va alla facoltà di medicina, fronteggia studenti inferociti e baroni che danno loro man forte, prende la parola e si esprime più o meno così: “ io vedo le donne morire dopo il parto perché nei villaggi si taglia ancora il cordone ombelicale con il coltello sporco e arrugginito e voi, invece di preoccuparvi della salute dei poveri, pensate solo ai vostri posti”.
E’ troppo per i medici, ma è troppo anche per il TLA. Da tempo Sewa va per la sua strada, dalla metà degli anni ‘70 Ela Bhatt è una leader di livello nazionale assai più nota dei suoi colleghi maschi e questo naturalmente non fa loro piacere, ma soprattutto il TLA non intende giocarsi l’anima per i dalit: nella tradizione indiana esistono i lavori puliti, anche se modesti, riservati ai poveri delle caste alte, e i lavori impuri (che hanno a che fare con la sporcizia o con parti di animali uccisi) per la caste basse. Il tessile è tipicamente del primo tipo.
Ela Bhatt prende per l’ultima volta la parola al congresso del 1981, viene interrotta, offesa, coperta di fischi, costretta a lasciare i podio. In un’intervista ricorderà quella giornata epica con una citazione di una delle più celebri eroine indiane, Draupadi, la moglie dei fratelli Pandava nel Mhabharata. Ela, al congresso del TLA, si sente come l’orgogliosa regina, cui il crudele cugino che l’ha vinta al gioco vuole strappare il sari per umiliarla davanti alla corte. Draupadi si rivolge alla protezione di Krishna e il sari miracolosamente si riproduce e si riallunga cento e mille volte. Ela si rivolge alla protezione delle sue donne ed esce dalla sala per iniziare una nuova strada.
Il primo ordine del giorno del primo congresso autonomo di Sewa stabilisce che gli uomini non possono essere né membri, né dirigenti del sindacato.
Tuttavia, nella cultura di Sewa – almeno per come io la posso testimoniare oggi- non c’ è alcun furore anti maschile, né alcuna rigidezza separatista. Anzi, si insiste molto sul fatto che la crescita delle donne, soprattutto fra i più poveri, è un fattore di benessere e di sviluppo culturale della famiglia. Per giunta, io, qualche uomo oggi iscritto a Sewa, l’ho incontrato: un esperto di family planning ( ex operaio tessile licenziato) che ha il compito di animare gruppi di discussione e di presa di coscienza fra i mariti dei villaggi e due o tre maestri di informatica. Forse il tempo ha lenito qualche ferita.
Ciò che veramente conta è costruire la leadership femminile. Ma per capire questa parola, nel senso in cui la usa Sewa, bisogna spogliarsi del verticismo tipico dell’attuale cultura politica italiana. Leader, nel suo linguaggio, è una figura che equivale a quello che nella più nobile tradizione sindacale italiana erano (o sono?) i quadri. Persone preparate, competenti della strategia del sindacato, capaci di cogliere i fenomeni sociali, autorevoli, coraggiose, umanamente calde e solidali. In Sewa diventano leader in questo senso anche donne poco più che analfabete, formandosi alla politica del sindacato con molto rigore, ma anche con molta semplicità.
Innanzitutto leader dunque, ma anche autonome dai partiti e capaci di costruire dei modelli di innovazione sociale per farne successivamente oggetto di battaglia politica in modo che vengano diffusi e rappresentino nuovi orizzonti di diritto (la tutela della maternità, per esempio, ma anche l’assicurazione, il credito, la protezione delle vedove).
Inoltre, capaci di azioni simultanee e non sequenziali: disposte, diremmo con il nostro linguaggio, a cogliere contemporaneamente le diverse angolature dell’identità femminile e i modi in cui vengono tradotte in condizioni sociali.
Nel frattempo la popolarità di Ela Bhatt cresce. Gode della stima di Rajiv Gandhi, che è diventato primo ministro e che nel 1988 le affida il compito di portare al parlamento nazionale una relazione sul lavoro delle donne in tutto il paese. E’ un lavoro immenso, fatto con lo stile di una ricercatrice sul campo, redatto dopo un viaggio in diciotto stati ai quattro angoli dell’India: dalle saline alle foreste, dalle montagne alle miniere. Ancora oggi fa scuola. La stima verso Gandhi nel rapporto è ricambiata, ma senza sconti: le critiche verso la politica governativa di controllo delle nascite, che in quegli anni è molto autoritaria e aggressiva, non sono né tenere, né diplomatiche
Anche l’anno precedente è un tappa storica per le donne dell’India: in un villaggio del Rajastan una povera piccola vedova di diciotto anni si lascia bruciare sulla pira dopo la morte del marito, secondo l’antico rituale del “sati”. E’ la grande manifestazione di massa del femminismo indiano: le donne si riversano lì da tutti gli angoli del Paese e Sewa con loro. Non è difficile scoprire la pressione perversa dei fratelli, e in generale della famiglia, su Roop Kandar (questo il nome della vedova ragazzina) e il lucroso mercato che cominciava ad avviarsi intorno al culto della santa eroina. Da allora la consapevolezza sociale contro la barbarie del “sati” è cresciuta, ma è ancora possibile leggerne notizia sui giornali.
Ci avviciniamo ai giorni nostri e con essi a una nuova scommessa, quella della cosiddetta “società della conoscenza.
Per molto tempo Sewa aveva tentato di alfabetizzare le sue iscritte, ma senza successo. La durezza delle condizioni materiali faceva apparire loro la conoscenza un lusso al di sopra delle proprie possibilità. Poi, alla fine degli anni ottanta, con l’inizio delle crescita economica, il clima cambia. La voglia di sapere, in un paese in cui le donne alfabetizzate sono solo il 56%, comincia a farsi sentire. Nel 1990 nasce l’”Academy”, l’ istituto di formazione di Sewa, che macina un quantità indicibile di attività. Dai corsi di alfabetizzazione, a quelli di formazione politica, al training per qualificare le levatrici di villaggio, all’educazione alla salute negli slum, al recupero scolastico delle ragazzine che sono state costrette a restare a casa a badare ai fratelli più piccoli, alla formazione informatica per le più giovani, a quella economica (per quanto semplice) per le attiviste che si occupano della banca e delle assicurazioni. Insieme a tutto ciò nasce nell’Academy una vera passione per i nuovi media e in particolare per l’uso dei video nelle inchieste sociali. Come è nello stile di Sewa, anche in questo campo si formano alla leadership i quadri di base: una carpentiera diventa la più apprezzata film producer dell’associazione. Cambiano i tempi, ma non il metodo: il senso di sé e della propria dignità è alla base di tutto; ancora oggi le donne dei villaggi imparano ad avere un nome e a usarlo ( e a non dire di sé solo “sono la madre di di Sanjaj” o “la moglie di Arun”), o a salire su autobus sapendo dove vanno, solo dopo i corsi di Sewa.
I simboli. Se discute e se ne è discusso molto nel femminismo occidentale. Accade anche qui, anche se in forme diverse, più praticate, più indirette. La banca, per esempio, è la “casa della madre” o il “pozzo del villaggio”: un luogo sicuro, che ristora, ma un luogo di donne. Per l’India, poi, la casa materna ha un significato tutto particolare: la ragazza che va sposa, infatti, non sarà la “regina della casa” come vuole la retorica occidentale, ma entrerà in un nuovo dominio femminile, quello della suocera, spesso invadente e tirannica, talvolta apertamente crudele. Dunque la “casa della madre” è un porto sicuro, un luogo di eterna nostalgia. La dirigente autorevole o matura, invece, deve abituarsi a vedere il suo nome accompagnato dal suffisso Bhen. Anch’io qui sono Mariella Bhen, che vuole dire sorella, ma anche qualcosa di più, guida, compagna più grande. Comunque non è un’espressione confidenziale: segna il perimetro di una forma in cui le donne si riconoscono, o, per dirla al nostro modo, si danno valore.
Dove andrà Sewa nella nuova India? Oggi ha un nuovo gruppo dirigente più giovane in cui non esiste una leader carismatica. Ela Bhatt, ormai piuttosto anziana, ha scelto la libertà della distanza e soltanto talvolta orienta e consiglia dalla sua casa.
La vera sfida per Sewa, come per tutta l’India democratica, è la tenuta dei valori fondanti del Paese in questi tempi di furori integralisti. Il Gujarat, nel 2002, è stato teatro di una delle ultime e più atroci carneficine inter comunitarie degli ultimi tempi: 2.000 morti, soprattutto musulmani, ma anche parsi; 140.000 persone con la casa bruciata, costrette a vivere per mesi nei campi per rifugiati. Le complicità del governo guidato dal BJP (partito della destra induista) e della polizia sono note e documentate da film, inchieste giornalistiche, atti giudiziari. Un celebre film ispirato alla vicenda, che racconta la storia vera di una famiglia che ha perso il suo bambino, “Parzania”, è tuttora vietato nelle sale di Ahmedabad “per motivi di ordine pubblico”. Narendra Modi, l’uomo che era governatore all’epoca e ha coperto mille misfatti, è stato rieletto, governa ancora e si sottoporrà di nuovo al voto alla fine di quest’anno. La città non si è ancora risollevata dal lutto e dalla vergogna: negli ambienti democratici circolano amarezze, reciproche accuse di sottovalutazione e di insufficiente impegno.
In realtà il Gujarat è stato sempre un po’ laboratorio politico: prima della grande epopea della libertà nazionale, poi purtroppo della nascita della nuova destra, cui è stato difficile resistere, opporsi, contrapporre i propri valori.
C’è chi dice che può esserlo ancora, che l’epoca dell’ascesa brutale dei partigiani dell’Hindutva (l’India agli indù) è finita e che nuovi protagonismi politici si preparano sotto questo grande cielo.