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In una parola / I nostri giorni imperfetti

24 Gennaio 2024
di Alberto Leiss

Il protagonista di “Perfect days” Koji Yakusho.

Pubblicato su manifesto il 23 gennaio 2024. Fa discutere il film di Wim Wenders, Perfect days (ne ha parlato sul manifesto Cristina Piccino, e qui su DeA Ghisi Grütter). È già qualcosa in tempi di sonnambulismo, di volgarità, e di violenze diffuse. Si argomenta tra amici e amiche a sinistra. Il protagonista che sembra felice del suo lavoro “umile” di chi pulisce – perfettamente però – le toilette pubbliche di Tokyo, e sorride al sole tra le foglie, non è forse la rappresentazione di una rinuncia alla socialità, una resa al mondo così com’è, mentre è troppo sbagliato e bisognerebbe darsi da fare – con gli altri – per cambiarlo?
A me è piaciuto e ha suggerito una lettura diversa. Razionalizzo sensazioni che immagini e musiche – e gli asciutti dialoghi – mi hanno comunicato intensamente. Hirayama, il protagonista, parla soprattutto a noi uomini. Si capisce che ha alle spalle una vita diversa e probabilmente sbagliata. Non è un “io” asociale. Il suo mestiere è rivolto al benessere comune, una società di corpi reali, intravisti nelle necessità più “basse”, in luoghi che forse contraddittoriamente vogliono nobilitarle esteticamente. È amato dalla nipote in fuga da una situazione familiare che prevede il macchinone con l’autista. Ha una intensa comunicazione erotica con la cuoca (e brava cantante) che lo ricambia con porzioni più generose. Quando la sorprende abbracciata con l’ex marito si ritira forse soffrendo, ma senza competere con l’”avversario”. Il quale si rivela anch’egli un maschio desideroso di finire al meglio la propria vita – sbagliata anche la sua? – spezzata dalla malattia. Giocheranno a calpestarsi le ombre.
Ascolta cassette a nastro degli anni in cui si sognava – e si praticava con risultati anche discutibili – la rivoluzione, preferisce scattare fotografie con una macchinetta non digitale, annaffia e accarezza ogni mattina le piccole piantine che conserva in uno spazio speciale della sua piccola abitazione.
Non è un’idea del tempo su cui meditare? È giusto gettare via tutto quello che l’”innovazione” giudica superato e rimuove? Che cosa è meglio conservare per arricchire un presente che è l’unica dimensione che davvero abitiamo?
La felicità di Hirayama non è una cosa semplice ed è ricca di tristezza e malinconia, come dicono le ultime sequenze del suo volto non sempre sorridente, con il canto bellissimo di Nina Simone. Lui però la cerca la felicità, e fa i conti col proprio desiderio. Qui e ora, non in un futuro paradiso terrestre, magari proiettato in un parto accelerato della storia, più o meno disastroso.
Insomma, direi che suggerisce all’agire di noi uomini una via della cura di sé, degli altri e altre, e del mondo, che facciamo molta fatica a pensare e a agire. E si può cambiare in meglio il mondo se non si comincia dal provare a cambiare se stessi?
Non so se fosse intenzione del regista, e magari parla anche il suo inconscio. Ma dalla creatività artistica oggi vengono ogni tanto segnali assai più interessanti del poco che offre un dibattito politico rinsecchito e rancoroso. Non bisognerebbe lasciar cadere la discussione pubblica, per quanto sghemba, sul “patriarcato” che più o meno morto o morente ancora imperversa.
Ho visto a Roma una edizione del Flauto magico di Mozart dove il regista Michieletto ha ridotto l’uomo-uccello Papageno e la sua bella Papagena a bidelli di una scuola grigia e polverosa, la Regina della Notte quasi una signorotta borghese un po’ isterica, che prende psicofarmaci. Ma la musica di Mozart (ben suonata e cantata), e con lei la magnifica Regina, hanno come sempre trionfato sulle promesse di giustizia e felicità dell’illuminista misogino Sarastro, come sappiamo tragicamente contraddette dalla storia.
Sono passati tre secoli. Che si aspetta ancora?

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