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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Ma c’è anche la “cura” maltrattata

17 Febbraio 2022
di Letizia Paolozzi

Veramente, c’è da essere gratificate e pure un po’ tronfie per il modo in cui la parola e la realtà della “cura” vengono oggi citate e proposte come riflessione culturale, sociale, politica da tante femministe e anche da alcuni nipotini di Marx. E pure dalla pubblicità del rilassamento nei centri termali.
Lavorò il gruppo delle femministe del Mercoledì e io con loro più di dieci anni fa, tirando fuori questo paradigma dalla cassetta degli attrezzi. Che incrociava il potere, la presunzione, la violenza nel mentre coinvolgeva coscienza del limite, vulnerabilità, sofferenza.
Adesso, nel tempo tragico della pandemia, il “prendersi cura” esplode, si fa punto di vista collettivo.
Qualche esempio? Si chiama “Società della cura” il percorso, nato durante il lockdown “intorno al quale far convergere tanti pensieri e tante pratiche alternative alla società del profitto…”. Secondo Lea Melandri che pure avanzava obiezioni, esiste un “resto”, uno “scarto” impossibile da cancellare attraverso la socializzazione totale, i servizi organizzati e pagati. “E’ su questa eccedenza che il significato della cura può assumere un’estensione inaspettata” (su Comune-info.net del 30 gennaio 2022).
In “Liberiamo il tempo delle donne” dell’Agorà Democratiche (le Agorà sono un esperimento di democrazia partecipativa) leggiamo: “La crescita delle diseguaglianze di reddito, di sapere, di genere, di generazione, tra i territori, richiede una strategia e la ridefinizione radicale e profonda di un modello economico, sociale, civile. Vogliamo che il tema della cura costituisca l’asse di un nuovo paradigma che restituisca centralità all’interdipendenza delle relazioni…”. Il testo dice cose assennate in un’ottica riformista dove ”la cura” batte prevalentemente sul welfare.
Di assonanze ne esistono con il gruppo del Mercoledì: “Noi pensiamo che nell’altalena delle donne tra lavoro e vita c’è qualcosa in più. Un resto che socializzazione totale, servizi organizzati, personale a pagamento non bastano a cancellare. Non che siano inutili. Il punto è che c’è un resto – a cui attribuiamo il nome di cura – che né il welfare statale né il mercato possono dare… È uno sguardo largo che ci viene dall’importanza che nella nostra politica – il femminismo – hanno assunto le relazioni”.
Una traccia “che ci interessa se consideriamo la cura sia una dimensione della riproduzione della vita, sia il terreno su cui contendere “il comando” sulle vite in questa contemporaneità globalizzata” (“La cura del vivere” su DeA, 7 ottobre 2011; supplemento a Leggendaria n.89).
Ma appunto nel verbo “contendere” stava la differenza, il suono della contraddizione e della contestazione. A costo di spaccare il capello in quattro e di cercare il pelo nell’uovo, “la cura” rischia di somigliare a un rifugio consolatorio se non si trasforma nella leva conflittuale capace di rompere la separazione tra lavoro “produttivo” e “riproduttivo”; se non accusa il modo di produrre; se non si traduce nella “cura” del vivere; se abbandona la preziosità delle relazioni e se, pur insistendo nel “nuovo paradigma”, non si sforza di inventare anche un nuovo alfabeto del conflitto.
Un nuovo alfabeto a fronte di un lavoro poco pagato (abbiamo i salari tra i più bassi d’Europa mentre i paesi che vanno meglio sono quelli dove il lavoro è pagato di più) e poco difeso; alle protezioni disattivate come è accaduto a Laila El Harim, incastrata nella fustellatrice di un’azienda di imballaggi nella Bassa Modenese e prima di lei a Luana D’Orazio, risucchiata a Prato dagli ingranaggi di un orditoio, evidentemente per velocizzare la produzione.
Ora con il Superbonus al 110 per cento i cantieri edili hanno iniziato una corsa contro il tempo pur di rispettare le scadenze richieste: l’altro giorno Jaroslav Marnka è precipitato dal quinto piano di un palazzo di viale Monza a Milano. Forse l’azienda non ha rispettato le norme; forse gli operai, per andare più veloci, per lavorare senza impacci, hanno evitato il casco, l’imbracatura. Tutto questo deve finire, ma per finire devono cambiare i rapporti di forza e di potere tra chi lavora e chi assume; deve cambiare lo sguardo del sindacato; deve essere superata la frattura tra produrre e riprodurre.
Gli studenti il nuovo alfabeto del conflitto hanno iniziato a sperimentarlo dopo la morte di Lorenzo Parelli, impugnando l’alternanza scuola-lavoro, quell’addestramento sottopagato o gratuito, con la scusa di “fare esperienza”, senza tutele previdenziali e di sicurezza.
Praticare “la cura” significa opporsi a queste situazioni con immedesimazione avversando la proposta di una mera sopravvivenza per quanti (in Italia sono 4 milioni) hanno il corpo ferito da un handicap; ribaltando il significato della vecchiaia (in Italia 14 milioni di anziani vengono considerati poco o niente in quanto fuori dalla produzione) e bloccando il meccanismo infernale che li caccia in luoghi anonimi, li isola, li parcheggia nelle finte case di riposo.
Fino a quando eviteremo di intrometterci, di pretendere, di esigere un cambiamento nelle relazioni tra gli uomini, degli uomini con le donne, nei luoghi che li e ci riguardano: la scuola, i trasporti, la medicina del territorio, le fabbriche, le città e ciò che le circonda ,“la cura” sarà soltanto una citazione eufemistica. Di questo vogliamo parlare (lo faremo il 23 marzo alla Casa internazionale delle donne) per interrompere lo spettacolo indecente della “cura maltrattata”.

Qualche lettura o rilettura:

Elena Pulcini, La cura del mondo, Bollati Boringhieri, 2009.
Carol Gilligan, La virtù della resistenza. Resistere, prendersi cura, non cedere. Moretti e Vitali, 2014.
Bernard Stiegler, Prendersi cura. Della gioventù e delle generazioni, Orthotes, 2014.
Joan C. Tronto, Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura, Diabasis, 2017.
Nancy Fraser, La fine della cura. Le contraddizioni sociali del capitalismo contemporaneo, Mimesis, 2017.
David Graeber, Bullshit jobs, Garzanti, 2018.
Judith Butler, La forza della nonviolenza. Un vincolo etico politico, Nottetempo, 2020.
Letizia Paolozzi, Alberto Leiss, Il silenzio delle campane. I virus della violenza e la cura, Harpo, 2021.

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