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In una parola / Paternità (II)

25 Marzo 2016
di Alberto Leiss

imgres.Pubblicato sul manifesto il 22 marzo 2016 –

Una lettrice che mi ha sorpreso – mia figlia – a proposito di quanto ho scritto qui sulla paternità ha osservato: ma perché non hai detto nulla della tua esperienza di padre? Non sei quello che cita sempre il femminismo e il partire da sé?
Ne è nata una discussione che mi ha fatto molto piacere, e che non sto a riassumere per lo stesso motivo per cui solo con grande cautela parlo di me in pubblico.
Qualcuno ha scritto che le biografie e ancor più le autobiografie sono sempre false. C’è il rischio del vittimismo – se si parla di colpe e errori – o del narcisismo – se si approva qualcosa del proprio vissuto. Il che non coincide con l’incapacità di aprirsi agli altri – ma in condizioni affettive e contesti adatti – o con il rifiuto di partire da sé.
Ho provato a dire qualcosa sulla figura del padre gay, nella discussione sulla “maternità surrogata”, perché a me è accaduto di interloquire con amici gay che sono o vogliono essere padri, o che sono interessati a riflettere sul non esserlo. E mi sono chiesto se in un desiderio di paternità che ha suscitato tante tensioni, anche violente e omofobe, ci fosse qualcosa che può appartenere a tutti gli uomini, e a me stesso, che con l’amore e i conflitti legati all’essere padre ho a che fare ogni giorno da quando – più di trent’anni fa – sono nati i miei due figli.
Penso che oggi ci sia un’occasione per un ruolo paterno, e maschile, diverso e migliore rispetto al passato. Lo ha detto con parole che ho molto apprezzato la vicedirettrice del Corriere della sera Barbara Stefanelli: “L’idea che la cura non sia un destino femminile ma un valore assoluto è la rivoluzione possibile. Rivoluzionario è pensare che nella cura delle persone e delle cose quotidiane si possa cercare, e trovare, un benessere che può saldare parti multiple della nostra identità, femminile e maschile”.
Il che vuol dire costruire anche una nuova alleanza con le madri, e in genere tra uomini e donne. Credo si debba aggiungere che questa prospettiva di cambiamento – di cui si avvertono già alcuni sintomi – comporta anche grandi difficoltà e acuti conflitti. Del resto se pensiamo davvero alle nostre vite e alla cura nelle relazioni con altri e altre, ci accorgiamo ben presto di quanto all’amore più intenso si intreccino sentimenti negativi: delusione, rabbia, impotenza, rancore, rischio di cedere alla violenza. E duri conflitti – politici, sociali, culturali, simbolici – saranno necessari per cambiare un mondo che negli assetti produttivi, economici e di potere, appare dominato dall’opposto della cura.
Ma è vero che il primo conflitto da affrontare è qualcosa che riguarda il proprio sé. Che cos’è oggi il desiderio di paternità, nell’epoca in cui la rivoluzione femminile ha dato un colpo fortissimo al ruolo patriarcale? Ho ascoltato donne che nel ricorso alla “maternità surrogata” vedono un nuovo episodio dell’aggressività maschile che pretende di impossessarsi persino del ruolo materno, cancellando la madre stessa. Una sorta di rovescio dell’invidia del pene di freudiana memoria, che rivela invece l’invidia maschile per il corpo femminile capace di dare la vita.
Ho citato e cito una affermazione di Stefano Ciccone che propone una risignificazione del corpo maschile partendo non dal supposto “di più” del fallo, ma proprio dalla impossibilità della gestazione. Una mancanza, un limite, da elaborare verso un nuovo linguaggio delle relazioni, e un diverso nutrire il proprio desiderio riconoscendo la differenza di quello altrui.
Un esercizio del partire da sé troppo difficile per noi maschi e incerti padri?

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