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In una parola / Paternità

9 Marzo 2016
di Alberto Leiss

images-2Pubblicato sul manifesto l’8 marzo 2016 –

Oggi volevo dire qualcosa sulla paternità, che mi sembra paradossalmente al centro e nello stesso tempo rimossa nella discussione sulla maternità surrogata, esplosa intorno alla legge ex Cirinnà.
Ma si affollano in testa troppe suggestioni, pensieri difficili.
Intanto è l’8 marzo, e mi ha colpito la decisione di Laura Boldrini di esporre le bandiere a mezz’asta per i femminicidi che si ripetono. La mia prima reazione – lo confesso – è stata di stupore e di dubbio: sarà giusto fare di una giornata di festa e di lotta (che certo parte dalla memoria di un eccidio di operaie, ma per celebrare la rivolta e la liberazione) un momento di lutto? Non si corre il rischio di inchiodare il mondo femminile nell’eterno ruolo di vittima?
Ma è probabile che la mia reazione dipenda dal fatto che il gesto della presidente della Camera inchioda me – con il mio sesso – nel ruolo del carnefice. E mi ricorda che noi maschi non possiamo più rimuovere o ritardare un profondo rendiconto del nostro rapporto con la violenza. Tutta la violenza, di cui quella contro le donne è – credo – l’aspetto più radicale.
Ho rivisto in tv Era mio padre. Un film bello e terribile sulla storia di un ragazzo figlio di uno spietato killer della mafia che si vendica dell’assassinio della moglie e di un altro figlio. Il racconto sembra dire che una selvaggia “giustizia” esiste anche nelle relazioni di un mondo criminale, e che un padre dedito alla violenza sistematica può anche svolgere un ruolo educativo, sorretto dall’amore, verso il figlio, che riesce a preservare dalla logica della mafia e dell’uso quotidiano e professionale del mitra.
A volte penso che per gli uomini la violenza sia non solo una responsabilità, una colpa, e in molti casi una fascinazione perversa, ma anche una specie di condanna.
Il destino che una divinità malefica – o forse una inconsapevole disposizione genetica dell’homo sapiens (come ho letto sulla Lettura del Corriere della sera) – ci ha gettato addosso.
Può essere allora una nuova forma di amore paterno – privo ormai dell’onere esclusivo di incarnare “la legge” – qualcosa che ci aiuti a liberare noi stessi e le nostre vittime dal dio maligno?
Credo che ci siano ragioni profondissime per cui – tornando al dibattito sulla ex Cirinnà – si concentrano sulla figura del gay che vuole essere padre tanti sentimenti opposti, fino a forme di violenta omofobia.
E’ una figura che taglia drasticamente rispetto all’immagine della famiglia tradizionale (che si è già messa da sé – per così dire – a dura prova). Che evoca la pretesa maschile di impossessarsi di tutto, fino all’impossibile della funzione materna, e che la vuole cancellare. Che viene inscritta nell’ estremo di modi di vivere dominati dall’individualismo, dalla mercificazione, dal persistente equivoco tra desideri e diritti.
Ma io vedo in questa figura – e nell’umanità concreta di uomini che conosco – anche qualcosa di profondamente diverso e opposto. Un porgersi verso il figlio o la figlia, la piccola creatura, con una attitudine di cura che non ha più nulla a che fare con gli stereotipi del virilismo. Che impara dal materno, non solo lo scimmiotta. E’ qualcosa che accomuna molti giovani – e meno giovani – padri, non solo gay, e che se saprà scartare le insidie di un narcisismo “di genere” sempre in agguato, potrà essere leva del mutamento maschile.
Certo, il primo passo per l’esperienza di questa differente paternità io lo vedo nel pieno riconoscimento del ruolo materno. Anche, forse ancora di più, se è quello di una donna che accoglie nel suo corpo un figlio per altri.

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