Il dibattito politico mischia il post di Giorgia Meloni con il quale ha licenziato il suo compagno alle notizie tremende che giungono da Tel Aviv, da Gaza, dalla Cisgiordania.
Dobbiamo scandalizzarci?
Forse sì, forse no. L’”organo” del melonismo, il quotidiano Libero diretto dall’ex portavoce della premier Mario Sechi, sabato ha dedicato tutta la “prima” alla “rabbia e l’orgoglio” di Giorgia, con sei pagine di articoli e commenti su quello che Sechi definisce “un eccezionale fatto politico perché è un esempio di temperamento e leadership”.
Ma anche su La Stampa (che però parla prima della guerra in Medioriente, e nel mondo) Flavia Perina lo definisce un evento «inedito». «È la prima volta – scrive – che si svela così palesemente l’inadeguatezza degli uomini nel rapportarsi con il potere femminile». Si riscopre il motto femminista: il personale è politico. E quello di Meloni sarebbe un “femminismo pragmatico e decisionista”, magari non proprio consapevole. Ma è certo – sempre Perina – che «per gli uomini il personale non è politico, è un parco giochi, il luogo dove mostrano ad altri uomini le loro virtù virili, le loro competenze calcistiche, il loro cuore gitano».
Siamo dunque tutti Giambruni?
Anche Massimo Gramellini, su La7, ha usato il maschile plurale: ha parlato di una sconfitta, un “fallimento dei maschi”. Avevamo l’occasione di avere un “nostro rappresentante principe consorte” e “abbiamo fallito miseramente”.
Non saprei se – Gramellini dixit (e con lui Simonetta Sciandivasci) – il post di Meloni sia “una lezione di educazione sentimentale”. Certo un po’ di buona educazione in più per un certo numero (temo non piccolo) di maschi non guasterebbe.
Ricordo anche che, a ruoli invertiti, un’altra lezione fu impartita al premier Berlusconi – sfacciate avances esibite in onda, e di peggio – dalla “first lady” Veronica Lario.
Ma vorrei aggiungere qualcosa di discutibile, proprio nel tentativo di discuterne agganciandomi a un fatto di così larga audience.
Se l’ex compagno della premier ha offerto una prova di miseria maschile essendo incapace di stare decentemente un passo indietro, non vorrei dimenticassimo che abbiamo di fronte agli occhi il quadro di una ben più grave tragedia maschile: tutti quegli uomini che sono ai primi posti nel potere che governa il mondo e che sembrano incapaci di esercitarlo se non ricorrendo alla forza e alla guerra.
Ho in mente una foto, vista sui giornali, in cui tutto il gruppo di comando di Hamas è costituito da signori barbuti, e si vede una unica donna: quella Jamila al Shanti di cui abbiamo saputo che è stata uccisa da un attacco israeliano, come alcuni altri esponenti. Era moglie di un altro capo di Hamas, ucciso negli anni scorsi.
Ma se guardiamo alla destra che ha governa in Israele il quadro, quanto ai ruoli di maschi e femmine, non cambia molto.
Le donne israeliane di Women Wage Peace, che da anni lottano insieme alle donne palestinesi del gruppo Women of the Sun per la pace e la convivenza tra i loro popoli, hanno scritto in un testo diffuso giorni fa, tra l’altro, che «…non ci sono quasi donne nei forum decisionali in Israele. Questa è una situazione intollerabile che deve cambiare. Chiediamo che la squadra di negoziazione per il rilascio dei rapiti includa donne. Non è possibile che solo gli uomini governino il paese durante questa crisi…».
Marek Halter, una vita impegnata per la pace tra ebrei e palestinesi, in un bell’intervento (su La Stampa di domenica) scrive che si sente come un Sisifo continuamente sconfitto: la pace, conclude, ormai «è nelle mani delle donne».
Dobbiamo rassegnarci all’inconsistenza e alla violenza maschile?