Pubblicato sul manifesto il 29 agosto 2023
La prima cosa che mi è venuta in mente quando ho saputo della scomparsa di Mario Tronti è che per una combinazione il suo nome, il suo carattere, la sua cultura e il mio affetto per lui sono legati al primo giorno in cui iniziò questa mia collaborazione con il manifesto.
Dopo anni che non scrivevo su alcun giornale il 31 dicembre del 2013 uscì su queste pagine un mio articolo che partiva dagli auguri ricevuti da Tronti, presidente del Centro per la Riforma dello Stato, con parole che dicono molto della sua idea di politica, del suo modo di guardare al mondo e al linguaggio.
Mario ci augurava “buon Natale” ma ometteva i tradizionali “buone feste” e “felice anno nuovo”. Questi – affermava senza esitazione l’autore di Operai e capitale – sono «auguri borghesi». Mentre il Natale, «il mistero del Dio incarnato, che rovesciò il mondo degli uomini, dal sotto al sopra e una volta per sempre, ci appartiene. Non è necessario credere per appartenere all’Avvento».
Ne ero rimasto colpito, divertito, ammirato. Non senza un certo senso di colpa per essermi adattato infinite volte, spensieratamente, al formulario festivo tradizionale nei miei auguri di fine anno.
Per espiare un poco la colpa e seguire la “linea” di Tronti avevo obbedito al suo successivo consiglio. Leggere le profonde parole sul silenzio di un sacerdote e raffinato letterato, Giovanni Pozzi, in un libriccino appena riedito (Tacet, Adelphi, 2013).
Sul risvolto di copertina c’era questa frase: la solitudine e il silenzio come mezzi per attingere il più alto dei traguardi: «la propria umanità allo stato puro».
Mario non guardava solo alla pur essenziale ricerca pura della “propria umanità”. Praticare il silenzio, imparare dalla tradizione mistica una maggiore capacità di ascolto e di visione, era per lui anche una scelta e una azione politica, sintetizzata in questa sua frase: «L’arma del silenzio contro la dittatura della chiacchiera».
Dopo aver obbedito e aver riconosciuto la verità profonda di questa posizione, non rinunciavo però a una specie di piccola distinzione: bisogna anche saper restare immersi nel chiassoso presente – scrivevo – senza farsene sopraffare. Ascoltare il fortissimo di una musica dissonante e riuscire a percepire se c’è e dove si nasconde il tema.
Forse la mancanza più forte e difficile da sopportare quando se ne va un uomo come Tronti è quella straordinaria esperienza di poter sentirsi assolutamente vicini anche quando si pensano cose al limite opposte. E vedere che è vero: se si ascoltano con la mente e il cuore aperti opinioni diverse da quelle che condividiamo abbiamo sempre qualcosa – spesso molto importante – da imparare.
Detto questo non vorrei far pensare che le mie poche idee siano molto diverse dalle molte che ha prodotto Mario Tronti. La passione più forte è per quel mettere il mondo “sottosopra” che lui vedeva nel messaggio di Cristo, come nel “sogno di una cosa” che la classe operaia ha avuto in alcuni momenti della storia che abbiamo vissuto, realmente, non solo immaginato e desiderato.
Tronti a un certo punto fu affascinato anche dal mondo “sottosopra” annunciato dal femminismo della differenza. Però non riusciva a credere a una rivoluzione che agisce sul simbolico, sui legami relazionali, senza il contropotere di una organizzazione con la sua gerarchia e la sua salda teoria politica. Qui sì, provo a pensarla diversamente.
Soprattutto abbiamo vissuto, certo con lui, in quel vecchio partito pure pieno di limiti e di errori, di scontri senza complimenti, un saper volersi bene che forse è stata la cosa più vicina al Comunismo di cui andavamo in cerca.
Tanti auguri caro compagno Mario, perché resterai tra noi.