EMPIRE OF LIGHT – Film di Sam Mendes. Con Olivia Colman, Micheal Ward, Toby Jones, Colin Firth, Tanya Moodie, Crystal Clarke, Hannah Onslow, Tom Brooke, Monica Dolan, USA 2022. Fotografia di Roger Deakins, scenografia di Mark Tidesley.
Siamo a Margate, un paese sulla costa del Kent a cavallo tra il 1980 e il 1981. C’è un bellissimo edificio razionalista sul lungomare che è il Cinema Empire, una volta con quattro sale e un piano bar, oggi con due sole sale funzionanti.
Al cinema il proiezionista Norman (interpretato da Toby Jones) mostra All That Jazz e The Blues Brothers, mentre Hillary Small è più una factotum che una vicedirettrice.
Il film vorrebbe essere un’ennesima ode alla settima arte, riprendendo un periodo non felice né per le sale cinematografiche né per la Gran Bretagna, tra le strette della Thatcher, la nascita dei nuovi poveri, il razzismo crescente e le manifestazioni degli skinheads. L’anno dopo con la guerra delle Falkland il governo inglese riuscirà parzialmente a distogliere l’attenzione dai problemi economici del paese.
In questo scenario, che il regista ricorda di quando era ragazzo (Mendes è nato nel 1965), si incrociano varie umanità difficili e sofferenti. Gli impiegati presso la sala sono tutti personaggi vulnerabili: il proiezionista Norman ha mollato molti anni prima moglie e figlio, ma non si ricorda neanche perché, e vive in simbiosi con le sue macchine per dare “la vita con 24 fotogrammi al secondo”. Il bellissimo e giovane giamaicano Stephen (interpretato da Micheal Ward), diventato il nuovo bigliettaio è vessato in quanto nero e vive in un piccolo appartamento con la madre infermiera. Hillary è una malata psichiatrica sotto litio, assunta forse più per un obbligo nei confronti dei servizi sociali che per le sue qualità. Inoltre ha dei fugaci e squallidi rapporti sessuali con il direttore Donald Ellis (interpretato da Colin Firth) sposatissimo che la usa e la sfrutta.
Nasce una tenera amicizia tra “diversi”: Hillary ritrova il sorriso solo da quando nella sua vita è entrato Stephen, un ragazzo dolce e delicato che aspirerebbe ad andare al college a studiare Architettura. Hillary lo spinge a riprovare e lo esorta dicendo: «Nessuno ti darà la vita che vuoi, devi uscire a prendertela».
È quasi incredibile scoprire che in tanti anni che Hillary lavora lì non è mai entrata in sala a guardare un film. Il suo è un atteggiamento autistico in cui pagare le caramelle, fare i conti della serata e pulire le sale a tarda sera, impegnano tutte le sue energie quotidiane. Solo sul finale deciderà di provare l’emozione (terapeutica?) di vedere un film e sarà, guarda il caso, “Oltre il giardino” di Peter Sellers del 1979 che tratta di un personaggio border-line e si conclude con la frase “la vita è uno stato mentale”.
“Empire of Light” forse vuole dire troppe cose e affronta un po’ troppe tematiche senza approfondirne nessuna. Del resto è la prima sceneggiatura che Sam Mendes scrive tutto da solo.
Il film si regge sulla solita interpretazione magistrale di Olivia Coleman, anche se il personaggio non è del tutto credibile, e sulla splendida prestazione di Roger Deakins (il fotografo all’ennesima candidatura all’Oscar): le sue immagini riescono a trasmettere la luce richiamata dal titolo, e i toni di un Inghilterra marginale, dando vita agli spazi degradati. Così va sottolineato anche il lavoro svolto dallo scenografo Mark Tidesley che infonde la magia delle sale cinematografiche di un tempo arricchendola di dettagli.