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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Esiliarsi da un mondo che cambia

11 Febbraio 2023
di Letizia Paolozzi

“E seppure siamo ben distanti dalle dimensioni che ha assunto negli Usa, durante e dopo il Covid, la cosiddetta “Great Resignation” (o “Big Quit”) anche in Italia abbiamo toccato una cifra record nell’anno appena finito: più di un milione e seicentomila persone hanno lasciato volontariamente il lavoro nei primi nove mesi del 2022, e il trend è in continua crescita” (Antonio Polito sul Corriere della Sera del 7 febbraio 2023).
Le imprese cercano lavoratori per riempire il vuoto di quanti sottraggono il loro corpo alla fatica, allo stress, alla noia, alla ripetizione. Oppure cercano altro, qualcosa di meglio, che sia riconosciuto, valorizzato? Peccato non sapere – e non credo esistano delle inchieste approfondite in proposito – cosa succede al milione e seicentomila che hanno lasciato il lavoro.
Contemporaneamente, cresce la disoccupazione. Forse, come scrive Polito, c’è una nuova domanda di qualità del lavoro; c’è la scoperta, introdotta dallo smart working, che si possono ottenere altri orari, una diversa armonizzazione con la vita famigliare. La denatalità riduce il potere di portare in fabbrica, in ufficio nuova forza-lavoro.
“Cospirare vuol dire respirare insieme e di questo siamo accusati. Vogliono toglierci il respiro perché abbiamo rifiutato di respirare isolatamente nel proprio asfissiante luogo di lavoro, nella propria casa atomizzata. Eppure ho compiuto un attentato contro la separazione della vita dal desiderio, contro il sessismo dei rapporti interindividuali, contro la riduzione della vita a prestazione salariale” (Félix Guattari in “UIQ” Luiss University Press).
Vero è che i lavori si precarizzano, si spezzettano nei gesti della gig economy. I sindacati non pensano a legare il tempo di lavoro a quello di vita, degli svaghi, dei piaceri: andare al cinema, a teatro, a vedere una mostra; dedicarsi alla famiglia invece di considerarla soltanto come una rete di protezione per precari e disoccupati.
Assistiamo a “un cambiamento d’epoca” (l’ha detto il tedesco Olaf Scholz riferendosi alla guerra in corso in Europa, al ridisegno delle alleanze geopolitiche). Il Covid ha reso tutti più piccoli, più fragili; il conflitto armato produce perdita di senso nel futuro.
Se questo è vero, noi donne e uomini giovani o vecchi, cattivi o buoni, illusi o disillusi per via delle esperienze che ci hanno plasmato, ci modifichiamo con il cambiare delle esperienze. In effetti, dopo l’operazione che elimina le cataratte vediamo gli alberi di un verde più squillante e i colori più forti.
Allora, la “grande dimissione” dal lavoro può diventare un segnale tra gli altri (la scelta di tante donne di non diventare madri; la protesta per la politica dei partiti contenuta nell’astensionismo; la comunicazione semplificata per cui, a Sanremo, i commenti al facile monologo della snella, bianca, bella Chiara Ferragni sono stati: “Se lo è scritto lei, da sola!”) del rapporto ambivalente che intratteniamo con questa fase storica.
Da un lato l’esilio come sradicamento, come protezione dal pericolo, domanda di un riparo: quanti e quante abbandonano il terreno della guerra, in Russia, in Ucraina optando per la condizione di stranieri, di “senza casa”? Dall’altro, l’esilio per accettare di vivere “senza casa”, specchiandosi in chi coltiva il grumo della ribellione.

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