Olga Karach , Kateryna Lanko e Darya Berg
Cosa so a un anno dall’invasione russa dell’Ucraina?
So dove sta il Donetsk e Zaporigia e Bakhmut ma non molto di più perché, nonostante la storia sia capace di livellare fosse, buche e montagne di cadaveri, l’odio non scompare anzi lascia una scia ammorbante.
E l’odio pesa, intralcia, separa. A Kiev si riaffaccia l’Holodomor, la carestia provocata da Stalin in Ucraina tra il 1932 e il 1933 che provocò milioni di morti. Jan Brokken nel bellissimo “
Anime baltiche” (Iperborea 2014) descrive “l’identità strappata” di Lettonia, Lituania e Estonia: “Da che parte stava un padre lettone nel ’19, ’34,’40, ’41,’45, ’49, ’58, ’89?” Le date portano il segno di conquiste, vittorie, sconfitte, lutti, lacrime.
So di madri russe in cerca di notizie dei figli scomparsi e dello sperma congelato dai soldati ucraini prima di partire per il fronte. Ha osservato l’ucraina Kateryna Lanko che “ora vai in prigione se non uccidi perché non sei un buon cittadino mentre in tempo di pace vai in prigione se uccidi”.
Kateryna, la bielorussa Olga Karach, la russa Darya Berg, per iniziativa del Movimento Nonviolento nell’ambito di Europe for peace sono venute in Italia. Ieri a Roma, prima ricevute dal Pontefice poi in
conferenza-stampa, hanno dialogato tra loro – miracolosamente in questo mare di retorica armata – in sostegno degli obiettori di coscienza, dei renitenti alla leva, dei disertori russi, bielorussi e ucraini, in difesa dell’asilo, protezione e difesa legale così da ottenere lo status di rifugiati politici.
La tragedia è che la Russia non può perdere e l’Ucraina non può vincere. Lo ripete il più importante generale americano; ci riflette un importante filosofo come Habermas. Anche l’Onu l’aveva previsto: “La guerra non avrà vincitori”. Vite perdute, però tantissime.
Sul teatro di questa guerra dove l’attore si trasforma nell’eroe e il presidente della repubblica federale si aggrappa all’aquila bicipite dell’imperatore, dove la diplomazia dall’alto tace, il momento di sedersi a un tavolo e discutere di sospensione del conflitto, di una conferenza internazionale di pace non arriva. Pochi si domandano cosa accadrà “dopo”, quante generazioni serviranno per dimenticare il sangue versato.
Non se lo domanda l’informazione che, inzuppata di retorica, si barcamena tra bugie, fake news, racconti di propaganda bellica. Il terreno si fa incerto quando ci si riferisce ai russofoni del Donbass. Esistono ancora, in quelle zone, o in Crimea, cittadini e cittadine che restano legati alla Russia nonostante i bombardamenti dell’ospedale, della scuola, del giardino zoologico, oppure vorrebbero essere indipendenti sia dalla Russia sia dall’Ucraina? I media non dovrebbero aiutarci a capirlo davvero?
Non mi pare di sapere molto altro.
Se non che la guerra tanto vicina una cosa l’ha ottenuta: le foto delle macerie, i corpi dilaniati, il rumore dei bombardamenti hanno modificato la prospettiva, almeno la mia, rendendomi meno distratta e più ostile.
Ostile a questi giorni colmi di violenza che messi insieme formano un tempo feroce. La violenza comincia dove la parola ammutolisce. Invece di guardare ai tanti modi, diversi da quelli della guerra, che vengono sperimentati per “prendersi cura di un mondo in fiamme” (titolo di una mostra che si sta svolgendo alla Galleria nazionale di Roma).
“È difficile provare compassione per chi viene dalla Russia nonostante le tantissime persone contrarie alla guerra. Persone che restano in silenzio per la minaccia della repressione giacché i regimi gli tolgono la parola” notava la russa Darya Berg.
Eppure, alle certezze e alle semplificazioni quasi che ognuno, ognuna di noi abbia in mano le carte per esprimere un giudizio sicuro e sia in grado di decidere tra vittime buone e vittime cattive, tra morti degni di pianto e morti che non lo sono, so che si può combattere la guerra con il dissenso, con la sottrazione del proprio corpo, con l’esilio.
Sono andati via in tanti, soprattutto giovani dalla Russia. In Bielorussia se ti sei fatto fotografare con la “terrorista” (così la definisce Lukašėnka) Olga Karach, ti prendi due anni di carcere. Dall’Ucraina è difficile uscire per via della leva militare obbligatoria per i maschi che ha sigillato le frontiere. Però esistono infiniti modi inventati da uomini e donne per resistere in nome della vita piuttosto che oscillare tra eroismo e resa, coraggio e viltà, forza e debolezza.
I gesti disarmati, non violenti, simbolo di un’altra resistenza, aiutano a indebolire la guerra. Benché non ci fosse nulla di dialogante nel linguaggio di Biden a Kiev e di Putin a Mosca che pure hanno usato lo stesso tono minaccioso, io credo con Olga Karach che “se si vuole fare la pace intanto bisogna cominciare a parlarsi”.
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