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Microcritiche / Il mistero di una moglie per caso

28 Aprile 2022
di Ghisi Grütter

STORIA DI MIA MOGLIE – Film di Ildikó Enyedi. Con Gijs Naber, Léa Seydoux, Louis Garrel, Sergio Rubini, Luna Wedler, Jasmine Trinca, Germania, Ungheria, Italia 2021 Fotografia di Marcell Rév, costumi di Andrea Flesh, musiche di Ádám Balázs.

Il film girato da Ildikó Enyedi è tratto dal romanzo del 1942 La Storia di mia moglie di Milán Füst, scrittore ungherese che per questo romanzo fu candidato al Nobel. La regista ungherese era stata già autrice di film coinvolgenti come ad esempio “Corpo e anima”, con il quale aveva vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino nel 2017. La storia era ambientata in un mattatoio alla periferia di un paesino vicino Budapest e narrava la nascita e la trasformazione di uno strano rapporto tra il direttore del macello e una giovane ispettrice, entrambi con difficoltà relazionali.
Qui siamo a Parigi negli anni Venti del Novecento. Jakob Störr (interpretato da Gijs Naber), un capitano olandese di mare, è seduto in un caffè con il suo amico Kodor (interpretato da Sergio Rubini) e decide quasi per scommessa di sposarsi con la prima donna che fosse entrata nel locale. Così Jacob conosce Lizzy (interpretata da Léa Seydoux) che accetterà, quasi per gioco, la sua proposta di matrimonio.
Störr si ritroverà quindi a vivere in un grande appartamento di Parigi con una donna estremamente affascinante, ma di cui non sa nulla.
Dopo qualche viaggio che lo tiene lontano per mesi rinuncia al mare – che per un marinaio è vitale – e cerca un lavoro di scartoffie ad Amburgo in una compagnia marinara, pur di rimanere più tempo a terra con lei, sua moglie.
Lui è troppo onesto? Troppo rigido? Troppo di buon cuore? È lui particolarmente sospettoso o è lei che lo tradisce di nascosto? Ha o no una relazione con l’antipatico scrittore Dedin (interpretato Louis Garrel)? Jakob finirà per ingaggiare un investigatore e farla pedinare pur di sapere qual’è la verità.
La vita ordinata del capitano Störr si troverà scombussolata da questa presenza inquietante che lui forse non cerca di capire, ma solo di possedere.
In “sette lezioni di vita” il film racconta la storia di un’ossessione: un amore nato quasi per caso diventa la dipendenza da una donna sensuale, ma ambigua.
Vari commentatori cinematografici hanno letto in questo film la classica contrapposizione in un rapporto tra l’atteggiamento maschile e quello femminile: immediato e diretto quello di lui – che non sa dimostrare le sue emozioni essendosi costruito uno scudo difensivo -, contorto e contradditorio quello di lei che sembra amarlo ma anche anelare verso una vita libera.
Lui è grande e grosso, un po’ impacciato e maldestro. Lei è piccolina e vezzosa. Lui è chiuso e un po’ orso mentre lei è vezzosa, socievole e capricciosa. Jakob non sorride mai, Lizzy sempre. L’unione fra i due è l’incontro di due anime inquiete stanche di girovagare, ma incapaci di ricongiungersi. Truffaut faceva dire al protagonista de “La signora della porta accanto”: «Né con te né senza di te».
È sicuramente difficile portare sullo schermo sensazioni, emozioni, dubbi e sospetti di cui è costituito tutto il film, ma Ildikó Enyedi, coadiuvata dalla splendida fotografia di Marcell Rév, ci riesce grazie anche alla recitazione impeccabile dei due protagonisti. Certo “Storia di mia moglie” è veramente troppo lungo (quasi tre ore) e fosse durato di meno ci avrebbe guadagnato.
Così racconta la regista in un’intervista: «Finora ho scritto le sceneggiature di tutti i miei film basandole su mie idee originali. Per la prima volta mi cimento con l’adattamento di un romanzo, con l’intenzione di servire i pensieri e la mente di uno scrittore che ammiro profondamente fin dalla mia adolescenza. Ma, di sicuro, posso farlo solo a modo mio…Voglio trascinare lo spettatore nelle profondità del mondo di Jakob Störr, l’affascinante capitano di vascello naufragato sulla terraferma».
L’ambientazione del film è perfetta: i ponti e i canali di Amburgo sono inquietanti e ben commentano lo stato d’animo del protagonista che li percorre. Un’atmosfera un po’ cupa proprio come lo poteva essere una città portuale nordica un secolo fa.
Presentato al 74mo festival di Cannes, il film, ma probabilmente più il libro, ricorda Doppio Sogno di Arthur Schnitzler nell’indagare il rapporto uomo/donna e nel non delineare troppo il margine tra realtà e illusione. Del resto Milán Füst, ha vissuto nella stessa epoca di Schnitzler e nello stesso contesto culturale.

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