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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

In una parola / È sostenibile moralmente oggi la guerra?

28 Aprile 2022
di Alberto Leiss

Dall’orrore della guerra in Ucraina, e in tutti gli altri luoghi in cui si combatte, e dal dibattito molto viziato da propaganda che ne è seguito in Italia, forse può venire anche una cosa buona. Potrebbe essere l’improvviso e generalizzato plauso, intorno al 25 aprile, alla giustezza, agli eroismi della resistenza italiana contro il nazifascismo. In passato ci sono state continue polemiche. Un pezzo di storia egemonizzato dai pessimi comunisti. Una mobilitazione di minoranza. Forse superflua (ci hanno liberato gli americani). Celebrazioni “divisive”. Efferatezze varie compiute anche dai partigiani… ecc. Cose così non sono mancate in questi giorni, ma direi a una scala ridotta.
Ha prevalso la bandiera della giustissima lotta dei partigiani. E questo è un bene.
La cosa è molto sostenuta dall’argomento che se fu giusta la reazione armata degli italiani fino alla Liberazione, come si può oggi tentennare non solo sulla giustezza della resistenza ucraina ma anche sul dovere di mandare a loro armi sempre più offensive? (Davvero esistono poi armi solo difensive?).
Si insiste proprio sul carattere armato – aiutato dai “lanci” degli alleati – della lotta partigiana. E qui forse si dimentica che quella reazione ebbe successo nel contribuire alla sconfitta dei nazifascisti e a salvare in buona parte la dignità dell’Italia perché moltissime persone – che aprirono gli occhi sul fascismo per gli orrori della guerra – sostennero moralmente e materialmente, senza armi, quel moto di liberazione.
Ma ci sono aspetti della questione che indicano profonde differenze. Allora una terribile guerra mondiale era già scoppiata, si trattava di finirla. Gli alleati non si limitavano a lanciare armi (per lo più leggere). Combattevano sul territorio italiano, rischiavano la vita e molto spesso la perdevano, come accadeva agli uomini e alle donne della resistenza. Oggi “noi” che siamo gli alleati degli ucraini non possiamo andare a rischiare la vita per loro. Troppo grande e il pericolo che scoppi un’altra guerra mondiale, non più “a pezzetti”. Una guerra che non può scoppiare. Se si passasse all’uso delle armi nucleari nessuno sa come andrebbe a finire.
La situazione, dunque, è radicalmente diversa da quella in cui si combatteva prima del 1945. E soprattutto prima delle bombe atomiche sul Giappone. Capisco che si pensi: almeno si mandino le armi. Ma non poterle seguire e usare direttamente lo avverto come un problema morale.
Preferisco immaginare altre forme di impegno accanto a chi viene aggredito. Trovare i pensieri e le parole giuste per estirpare “l’hitlerismo inconscio dell’animo maschile”. È stata varie volte citata in questi giorni Virgina Woolf: “Finché non pensiamo la pace tanto intensamente da materializzarla, ci ritroveremo tutti (…) in un’unica tenebra”. Oppure viene in mente l’idea di Simone Weil, tormentata anche lei da quella guerra, di formare un corpo di infermiere “di prima linea”. Un’amica mi ha girato oggi un testo che si apre così: “35 organizzazioni si sono unite per un progetto concreto di pacificazione ed aiuti umanitari che porta il nome di Movimento Europeo di Azione Nonviolenta. La nostra principale idea è di portare la forza trasformatrice della nonviolenza attiva dentro lo scenario del conflitto, non più idealmente, ma concretamente, attraverso la mobilitazione di migliaia di corpi fisici di civili europei in Ucraina. Non può esistere l’affermazione della nonviolenza attiva senza un movimento delle nostre persone fisiche”.
È molto difficile pensare: lo faccio davvero, io. Ma questa mi sembra una scelta moralmente fondata. Una cosa buona sarebbe almeno discuterne, civilmente.

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