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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Le scelte individuali che sfuggono al manicheismo della guerra

23 Marzo 2022
di Letizia Paolozzi

L’invasione di Vladimir Putin dell’Ucraina sta mostrando sugli schermi televisivi scene di guerra e di separazioni famigliari, distruzione e esodo. Cittadini e cittadine normali all’improvviso proiettati sul terreno della violenza. E dello scontro armato. Vedendo quelle scene, una si domanda: Tu che faresti?
Che faresti se ti trovassi accerchiata, bombardata, cannoneggiata, se l’invasore occupasse Valle Aurelia (niente di che questa stazione romana della Metropolitana, in più con i marciapiedi-killer, ma dal momento che lambisce il tuo quartiere mica hai bisogno della facciata del Borromini per aggrapparti a questa zona dal verde stentato e dai palazzi scialbi)?
Una volta deciso che tu proteggi la libertà, se fossi un uomo è probabile che lo faresti con un’arma. In effetti, il Parlamento italiano ha votato (tranne un piccolo gruppo di senatori e deputati) per l’invio di armi agli ucraini. Anche gli europei inviano armi e prima ancora e di più gli americani. La stampa afferma che sarebbe immorale non mandare le armi ed è morale mandarle. Anche se la decisione, almeno in Italia, non sembra a furor di popolo. Ma che sa il popolo?
Gli ucraini, attraverso le parole fiammeggianti del suo presidente e della vicepresidente dicono: “Morte a chi scappa”. Dai diciotto ai sessant’anni gli ucraini, se non hanno tre figli, sono tenuti a combattere. Chi scappa è un disertore, no?
E se tu fossi una donna che faresti? Potresti chiedere – alla tua età dubito che saresti adatta – ai miti vicini del quarto piano di insegnarti a sparare; potresti rifugiarti nella metropolitana oppure tenteresti di fuggire, con il bambino, il cane, il gatto, gli uccellini, il coniglio.
In tanti e tante sono fuggiti, addirittura prima dell’esplodere del conflitto. Profughi che possono diventare, in futuro, una spinta per i negoziati. Rifugiati nei luoghi di confine, in Polonia, nei paesi dell’Unione europea. Non parlano di vittoria, non temono la sconfitta; hanno un solo desiderio, che la guerra finisca presto.
In questa guerra – e anche prima, nei tempi dei tempi – il patriarcato si ripresenta nella sua forma più brutale con la divisione di comportamenti e di compiti tra maschi e femmine. In fondo “la guerra produce gli stessi effetti di un corso di manicheismo” (Tzvetan Todorov “Resistenti. Storie di donne e uomini che hanno lottato per la giustizia “, Garzanti 2015).
Tornano gli stereotipi che spingono all’indietro cambiamenti di mentalità, concezioni, atteggiamenti, addirittura abitudini. La pulsione distruttiva della violenza si nutre di nuova energia.
Uomini in tenuta da combattimento; donne in lacrime che dicono addio attraverso i finestrini di un autobus. Eppure, sappiamo di uomini che hanno paura e di donne che combattono. Come sappiamo di uomini e di donne che scelgono forme di resistenza diverse dallo sparare. Forme che però sono cancellate, trascurate, osservate con scetticismo. Addirittura considerate immorali.
Manca l’attenzione “alle iniziative personali e sparpagliate di cui ogni resistenza è intessuta” (Anna Bravo nel bellissimo “La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato” Editori Laterza 2013).
Non mi sogno di fare paragoni, di tracciare parallelismo con la Resistenza, quella per noi con la maiuscola. Tuttavia, se per gli uomini combattere è una garanzia del loro sesso, come si fa a escludere che i gesti delle donne, le piccole e grandi opere di maternità concreta e simbolica non crescano sul terreno di un’altra resistenza?
Si ripropone qui, apertamente, lo squilibrio dei sessi. Per essere notata dai media di mezzo mondo, Marina Ovsyannikova è intervenuta impetuosamente durante il principale tg russo con un cartello: ”No alla guerra. Non credete alla propaganda: vi stanno mentendo”.
Eppure, c’è un grande numero di azioni disarmate, compiute da donne e pure da uomini, che contestano l’ordine dominante.
La responsabilità individuale (qualcuna, ribelle e libertaria, la preferisce alla responsabilità collettiva) bada a salvare dalla sofferenza altri esseri umani; se ne prende cura. E la cura appunto, la capacità di relazione con gli altri sono attitudini pienamente umane, di uomini e di donne, che sono state sviluppate dal sesso femminile. Aggrapparsi allo stereotipo della debolezza che infragilirebbe le donne, porta a cancellare queste attitudini, anzi, le nasconde.
In Ucraina il 15 % dei militari appartiene al “sesso debole” e combatte. Molte altre immagino che costruiscano barricate; portino cibo; accompagnino al confine. Quelle in fuga dalla guerra (dei tre milioni di rifugiati donne e bambini sono il novanta per cento) vanno considerate non solo madri che salvano i figli ma resistenti che hanno amore della vita.
Magari, nel paese che li accoglie, s’incontreranno con le altre, si organizzeranno, prenderanno per la prima volta la parola in pubblico, proveranno a modo loro a indebolire l’odio, l’aggressività circolante nel mondo.
Se volete, donne nonviolente. Comunque, la nonviolenza non significa non schierarsi.

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