Giorni fa in una piccolissima ma affascinante libreria (faccio pubblicità: LaFeltrinelli Point in via XXI Aprile 87 a Roma) non ho resistito alla bella copertina Adelphi e al titolo – La lettera uccide – di una nuova raccolta di saggi di Carlo Ginzburg. Non pretendo certo di recensire queste coltissime riflessioni e indagini sul linguaggio, il mestiere dello storico e, direi, la condizione umana passata e presente. Ma solo registrare qualche immediata eco da una lettura nemmeno ancora conclusa.
Mi è capitato di citare anni fa, in discussioni molto conflittuali tra amici seguite da dolorose rotture, il passo di San Paolo ai Corinzi: …la lettera uccide, lo spirito da vita. Volevo reagire alla nefasta pratica di discutere e poi litigare sempre più disperatamente nei veloci scambi tra e-mail o ancor peggio nelle chat e su Facebook. Ci si incatena alle parole scritte di getto senza guardarsi in faccia, e ci si impicca ai propri risentimenti. Ma, ci avverte in uno dei saggi Ginzburg, citando alla fine di una ricognizione secolare il Kafka della Colonia penale, che anche lo spirito – se non bene amministrato – può uccidere.
Il rimorso citato nel titolo è quello che prova un interessante personaggio che opera nel primo Settecento, uomo colto e intraprendente, che propone alla Compagnia Olandese delle Indie Orientali, per cui lavora, di stabilire colonie in Sudafrica o in Australia – territori secondo lui climaticamente adatti allo sfruttamento agricolo – assicurando che la cosa, diversamente da quanto accaduto in America con la dominazione spagnola e portoghese, avrebbe solo giovato alle popolazioni locali, primitive e “oziose”: migliori condizioni di vita per loro “senza ingiustizie”. Vantaggi “che non provocano rimorsi” e che non danneggiano “in alcun modo la propria qualità di honnête homme e di cristiano” e quindi “in verità degni della nostra illustre Compagnia”.
Dunque il colonialismo europeo e occidentale ha già da tempo generato – grazie anche a quello che c’è di buono nei testi biblici o nel pensiero politico inglese (Locke per esempio) frequentati da quel signore – una propria più che giustificata cattiva coscienza. Purtroppo questo stato mentale e culturale non ha ancora dato tutti i suoi frutti. Viviamo anni e giorni segnati da paure catastrofiche anche se l’occidente sembrava aver vinto tutte le sue partite…
E questo mi porta a un’altra eco, relativa ai modelli psicologici e sociali di catastrofe studiati da Ernesto De Martino nel suo grande e incompiuto progetto su La fine del mondo. Ginzburg, tra i tanti interessantissimi collegamenti indiziari che ricerca e espone, cita l’interesse di De Martino per il film L’eclisse di Antonioni, con l’indimenticabile Monica Vitti e il fascinoso Alain Delon.
Alla fine del film l’eclisse di sole sembra annunciare qualcosa di molto più minaccioso, soprattutto attraverso gli sguardi ansiosi degli individui, e dai titoli di un giornale tenuto in mano da un uomo che scende dall’autobus: “La gara atomica”, “La pace è debole”.
Già, gli anni Sessanta, la doppia crisi cubana, con la fallita invasione americana alla Baia dei Porci e la “crisi dei missili” che sembrò portare il mondo sull’orlo di una nuova guerra mondiale e nucleare. Ginzgurb ricorda che De Martino osservò che nel mondo di oggi…”l’angoscia psicopatologica coincide con una possibilità reale: due antinomici terrori governano l’epoca in cui viviamo, quello di perdere il mondo e quello di essere perduti nel mondo”.
È stata l’umanità a vivere paure apocalittiche e poi a creare la possibilità tecnica e culturale (spirituale?) di una reale apocalissi. Saprà ora evitarla?