Metsola, von del Leyen, Lagarde
Sul desiderio-esortazione-ammissione che sì il tempo è arrivato di “una donna al Quirinale” quasi che dieci anni fa il “Non possumus” dipendesse dalle cavallette dei Blues Brothers; oltre agli appelli-enigmi del genere Turandot “la vogliamo ma non vi diciamo il nome”; oltre ai distinguo squisiti (non deve essere un tipo alla Lagarde, alla von der Leyen e, giammai alla maltese Roberta Metsola, nuova presidente del Parlamento europeo), circolano discussioni che vale la pena di riprendere.
Perché girano solo nomi femminili al vertice europeo – ora, sono tre: Parlamento, Banca e Commissione – e alla testa di partiti politici si contano soprattutto nomi di donne tutti cresciuti a destra? Perché in Italia il centrodestra può giocarsi molte carte femminili e il centrosinistra pochissime nei ruoli apicali?
Secondo Luca Ricolfi (sulla
“Repubblica” del 21 gennaio) il cuore del problema sta nell’abilità della destra a riconoscere “il merito” mentre la sinistra si impantana nella cooptazione che, a sua volta, trascina (e immagino imponga alle donne) un atteggiamento umile, ossequioso nei confronti del capo, del leader, del segretario di turno.
Elena Stancanelli (sulla
“Repubblica” del 23 gennaio) gli ha risposto che “le forze progressiste, in Italia, hanno, storicamente un problema, ma non con le donne: con il femminismo”.
Questa affermazione mi sembra più corrispondente al vero con qualche aggiunta dall’osservatorio di una che per relazioni, esperienze, rapporti, si è trovata a frequentare il campo progressista.
Tirando un rigo di divisione, il centrodestra si adatta meglio alla realtà, quella di ogni giorno, più normale che immaginifica, più brutta che bella, più marcia che abbagliante. I ladri ti entrano in casa? È la tua casa e tu gli spari addosso. Anche i 5Stelle nel bazzicare giustizialismo, disprezzo per la casta, populismo, la realtà non l’hanno respinta, ma ci si sono arrotolati dentro.
La sinistra invece – e qualcosa è rimasto (confusamente dopo l’89) nel centrosinistra – ha coltivato la visione di un futuro radioso benché strampalato con il sol dell’avvenire testimone della fine del capitalismo. Nel frattempo la famiglia stava cambiando, gli uomini scivolavano dal piedistallo, i figli ne mettevano in crisi l’autorità, le donne rivendicavano la decisione di avere o no figli. Siamo arrivati all’”inverno demografico” del Pontefice e alle attuali previsioni dell’Istat che nel 2040 crolleranno le coppie con figli.
Di questi sconquassi il sesso femminile è stato tra i principali attori. E dal femminismo è venuto anche un altro modo di pensare e fare la politica. Eppure, nel centrosinistra non si è compreso. Sono falliti da parte femminile i tentativi di non adeguarsi all’immagine che gli veniva appiccicata addosso e che gli impediva di esistere come soggetto.
Perché di tentativi ce ne sono stati. Penso al gruppo organizzato da Livia Turco che, nel 1986, dopo la morte di Berlinguer, cerca nel femminismo e nella forza sociale femminile la chiave di una nuova politica scrivendo la
Carta itinerante delle donne comuniste. Chi vuole documentarsi può leggere “
C’era una volta la Carta delle donne. Il Pci, il femminismo e la crisi della politica” (
a cura mia e di Alberto Leiss; Biblink editori 2017).
Nella
Carta e nella sua breve vicenda, si rispecchia l’incapacità (maschile) di vedere le donne se non come vittime e soggetto debole; l’aspirazione (femminile) a una rappresentanza la quale tuttavia non si propone di uscire da una cultura dove sono gli uomini a dettare le regole di comportamento (a loro vantaggio).
Soprattutto, non si prende in considerazione il conflitto con gli uomini pur scommettendo sul riequilibrio della rappresentanza. Così la pratica politica del Pci non si modifica (né si modificherà quella del Pds-Ds-Pd, almeno per mano delle donne), non cambiano le forme della politica e quando succede sarà per mano maschile, allora di Achille Occhetto, poi di Matteo Renzi. E non mi soffermo sui risultati.
Resta come l’ombra di Banco la questione della rappresentanza, l’attrazione delle “grigie” istituzioni. Soluzione? Quote rosa; 50 e 50 in ogni luogo dove si decide; democrazia paritaria. L’idea di fondo è che le donne devono aspirare a essere pari agli uomini con il risultato di ammutolirle o di cancellarne la presenza.
Nel centrosinistra, più che uniformarsi alla logica maschile (non so, Maria Elena Boschi con Renzi? Debora Serracchiani con Enrico Letta?) continua a prodursi tra le donne disinteresse per la libertà femminile; il rifiuto del conflitto e una tiepidezza nei confronti della collaborazione, del patto, della cordata con le altre. Meglio tutelate che ambiziose? Meglio vittime che solidali?
Comunque, la Carta si dissolve con la “svolta” e – aggiungo io – la poca cura con cui viene realizzata.
Per tornare ai pochi nomi femminili che la sinistra può (e vuole) spendere nelle cariche istituzionali (badate che il divario tra maschi e femmine esiste pure nelle università e nella finanza, e in genere nei luoghi apicali del potere), quello che manca tra le donne e tra gli uomini che si oppongono alla destra, specialmente in questo tempo di pandemia dopo il quale nulla sarà come prima, è la voglia di trasformare almeno un po’ lo spazio politico. Tutto il resto, comprese le schede bianche e i nomi “di bandiera” attesi per oggi, sono – parola di Bennato – solo canzonette.
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