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Microcritiche / Povertà e incanto nella terra dei nomadi

9 Maggio 2021
di Ghisi Grütter

NOMADLAND – Film di Chloé Zhao. Con Frances Mc Dormand, David Strathairn, Linda May, Swankie, Bob Wells. Fotografia di Joshua James Richards –

Il film è tratto da un articolo di Jessica Bruder pubblicato su Harper’s Magazine nel 2014 – diventato libro tre anni dopo con il titolo Nomadland. Un racconto d’inchiesta – ed è reduce dall’aver ottenuto tre Oscar 2021 per il miglior film, per la migliore regia e per la migliore attrice protagonista. Aveva già vinto il Leone d’Oro alla della 77esima Mostra del Cinema di Venezia.
Per scrivere il libro la giornalista Jessica Bruder passò tre anni sul van a parlare e intervistare persone che vivono on the road. Sono i nuovi nomadi, le generazioni di chi ha più di cinquant’anni che hanno perso il lavoro; molti di loro a causa del crack innescato da Lehman Brothers nel 2008, che ha portato via loro casa, lavoro e risparmi trasformandoli in uomini e donne dei van, delle roulotte e dei camper.
Al libro si interessò Frances McDormand che, insieme all’attore e produttore Peter Spears, ne acquisì i diritti per il cinema nel 2017 e scoprì la regista che ne è anche sceneggiatrice.
Nomadland” è una sorta di documentario empatico su quel tipo di nomadismo statunitense visto attraverso gli occhi di Fern (interpretata dalla stessa Frances McDormand): «Senza casa ma non senza tetto (houseless not homeless)» specifica in uno dei suoi rari dialoghi a una sua ex studentessa incontrata casualmente.
Siamo a nord-ovest del Nevada nel deserto Black Rock che era il letto di un grande lago lungo più di 100 km prosciugatosi migliaia di anni fa. Fin dal XVIII secolo questa zona ha sempre ospitato una serie di attività minerarie. A un certo punto ad Empire chiude lo stabilimento US Gypsum e Fern si mette in viaggio sul suo furgoncino chiamato Avant-garde, fermandosi qua e là a seconda dei lavori temporanei che trova.
Quello meglio remunerato è per Amazon, che all’epoca si stava affermando e aveva bisogno di personale extra nei picchi stagionali, come durante il periodo natalizio. Poiché occorreva trovare una nuova forza lavoro l’azienda nel 2008 si era rivolta con successo ai migranti, alle persone che viaggiavano e vivevano nei veicoli. È iniziato così il programma Camper Force che consiste in un’occupazione molto dura, con turni di 10-12 ore pagati tra gli 11 e i 15 dollari l’ora, ma che permette però di guadagnare il denaro sufficiente per mantenersi per il resto dell’anno in viaggio.
La vita di Fern quindi è fatta di lavori saltuari o stagionali, di inverni rigidi, e di serate solitarie. Su consiglio dell’amica Linda May (che interpreta se stessa), si mette in contatto con un’intera comunità di persone che vivono come lei e che si spostano da un’area all’altra del paese con i loro camper, ma costituiscono una comunità con una base fissa dove riunirsi e creare legami. Molte persone rappresentate nel film non si possono permettere, di andare in pensione anche se hanno lavorato tutta la vita (mancanza di contributi, pensioni troppo basse ecc.). Qui tanti incontri con altrettante umanità sofferenti, ognuno con il proprio dramma e con le proprie memorie: lutti da superare, malattie, abbandoni e tutto il resto sono i ricordi che ogni van cela al suo interno. Tre delle persone che Fern incontra sono reali nomadi che hanno accettato di interpretare se stessi nel film: Linda May, Swankie, Bob Wells.
Durante il resto dell’anno, Fern si guadagna da vivere talvolta come responsabile del campo dove sostano i veicoli. È un’occupazione che non costituisce un guadagno vero e proprio ma permette la permanenza gratuita e consente di passare la giornata immersi nella natura, a contatto con le molte altre persone. Tra i vari lavori precari Fern trova anche una occupazione in un impianto di lavorazione della barbabietola da zucchero. Poi incontrerà Dave, (interpretato da David Strathairn) che lavora al Badlands National Park accompagnando i turisti nelle visite e poi come cuoco per Wall Drug, un ristorante vicino al parco. Il loro rapporto si trasformerà in una storia di tenera amicizia.
Fern non sa vivere tra quattro mura, si sente intrappolata in una casa che sia con la sorella e il marito o con la famiglia di Dave, che pur l’accoglie a braccia aperte in occasione della festa del thanks-giving. Così preferirà ritornare nel deserto per rincontrare Bob Wells e la comunità attorno a lui che va e viene. Aiutare gli altri dà un senso alla vita, la natura è vasta e noi ne facciamo parte. Così il saluto di Bob Wells non è mai un addio: «I’ll see you down the road» (ci vedremo per la strada).
Il film sembra narrare contesti diversi da quello attuale, da un lato evoca un certo tipo di popolazione come quella raccontata all’inizio del Novecento da John Steinbek, ormai senza più miti americani, dall’altra richiama il mondo degli hippies anni ’60, una popolazione ormai anziana in cerca di natura e di pace. Alla continua ricerca di ciò che sta oltre l’orizzonte la nomade di Chloé Zhao attraversa vari Stati: Arizona, Nebraska, Nevada, California e South Dakota, tutti fotografati magistralmente da Joshua James Richards, il compagno della giornalista e scrittrice Jessica Bruder.
In un’intervista la regista Chloé Zhao ha raccontato di essere rimasta colpita da un brano del libro di Edward Abbey, Desert solitaire. Una stagione nella natura selvaggia: «Gli uomini vanno e vengono, le città nascono e muoiono, intere civiltà scompaiono; la terra resta, solo leggermente modificata. Restano la terra e la bellezza che strazia il cuore, dove non ci sono cuori da straziare… a volte penso, senz’altro in modo perverso, che l’uomo è un sogno, il pensiero un’illusione, e solo la roccia è reale».

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