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In una parola / Il vaccino che ancora ci manca

31 Dicembre 2020
di Alberto Leiss

Pubblicato sul manifesto il 29 dicembre 2020 –

Medici cubani a Milano per aiutare nella pandemia

Non tutti ricordano che la parola vaccino deriva dal paziente e prezioso animale chiamato vacca (termine che usiamo in volgari modi dispregiativi, con aggravanti maschiliste, chissà perchè) e che ha assunto il suo significato dal fatto che il virus del vaiolo delle vacche, prelevato dagli animali e iniettato su di noi, ha debellato il ben più pericoloso virus del vaiolo degli umani.
Dunque il “nemico” virus del vaiolo fu “sconfitto” da un altro microscopico esserino in un certo senso “amico”.
Ormai le metafore guerresche a proposito della pandemia che stiamo vivendo (e morendo) stanno precipitando nel ridicolo e per questo risultano ancora più insopportabili e irritanti.
La cattiva retorica bellica ha tracimato un po’ dappertutto in occasione dell’arrivo delle prime dosi di vaccino Pfizer.
Ne ha scritto Oreste Pivetta su Striscia Rossa (http://www.strisciarossa.it/il-v-day-come-lo-sbarco-degli-alleati/): la fanfara politico mediatica fa pensare al mitico D-day, lo sbarco degli alleati in Normandia che annunciò la sconfitta del nazifascismo (ma c’era già stata, l’anno prima, la vittoria sui tedeschi a Stalingrado). Come nei tanti “arrivano i nostri” dell’immaginario che ci accompagna dai tempi della conquista del West, i rinforzi congelati a meno 80 gradi arrivano scortati da guardie armate: “a dieci mesi dall’attacco della pandemia venuta da Wuhan, la scienza ci sta consegnando l’arma per difenderci” ha scritto il direttore della Repubblica domenica, abbandonandosi a una strna epica internazional-occidentale. Il vaccino appena arrivato “esce dai centri di ricerca di Stati Uniti e Europa” e grazie a questo “l’Occidente sembra così trovare nella confezione dei vaccini il terreno di un suo possibile riscatto sulla scena globale”.
Non sottovaluto il valore della ricerca scientifica e degli enormi investimenti pubblici e privati che in questi mesi si sono concentrati per bruciare i tempi e produrre i farmaci, su cui si dilunga l’editoriale di Repubblica. Ma ha davvero senso, come fa Molinari, decretare a priori la superiorità del “nostro” farmaco contro quelli elaborati in Russia e in Cina (e persino a Cuba), assegnando, ancor prima di poter valutare gli effetti reali delle iniezioni di massa, la palma del “vincitore” a questo Occidente evidentemente molto insicuro di sé, ma consolabile con la potenza delle sue biotecnologie?
Neanche questa epidemia ultra-globale riesce evidentemente a funzionare come il vaccino che ci manca contro la antica logica amico-nemico con cui si interpreta la realtà e si mette in forma ciò che chiamiamo politica.
Non simpatizzo certo per il dispotismo di Putin o per il sistema social-capital-poliziesco di Pechino, ma nemmeno per un capitalismo occidentale che produce continuamente diseguaglianza e violenza – patita in genere da chi già vive al peggio – in tante parti del mondo e nelle nostre stesse periferie urbane e sociali.
Per non apparire fazioso cito ancora La Repubblica: sabato 26 pubblicava un’intervista al giovane scienziato italiano, Patrizio Chiodo – di cui ha già parlato il manifesto – che partecipa alla ricerca sul vaccino a Cuba: “Non metto in dubbio – diceva tra l’altro – l’efficacia di nessun vaccino in commercio, assolutamente, posso essere critico solo delle modalità di produzione e distribuzione. Il “cattivo” non è Pfizer, per dire, ma penso il modello economico in sé. Contestare un vaccino che ha superato i passaggi ufficiali significherebbe far crollare la scienza. Ci chiediamo tutti invece, a livello globale, quanto durerà la copertura, come funzionerà con i richiami, ma appunto: sono quesiti che riguardano il mondo intero”.
Ma sì: nostra patria è il mondo intero…

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