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Microcritiche / Una terra del miele nei Balcani

17 Ottobre 2020
di Ghisi Grütter

FESTIVAL DEL CINEMA BALCANICO
Casa del Cinema di Roma 8/11 ottobre 2020

L’8 ottobre, presso la Casa del Cinema di Roma, è iniziato il Festival del Cinema Balcanico organizzato dall’Associazione Occhio Blu Anna Cenerini Bova. La rassegna, che ha visto la proiezione di una decina di film in quattro giornate, svolge il ruolo di importante occasione per la conoscenza e la diffusione del patrimonio cinematografico di quella zona dell’Europa. Grazie all’adesione dei Centri di Cinematografia di Albania, Bulgaria, Croazia, Grecia, Macedonia del nord, Montenegro, Slovenia, e alle proposte di Anica e Mibact si viene ad alimentare una prospettiva di più intense collaborazioni.
In particolare l’Italia sostiene economicamente attraverso l’ANICA coproduzioni cinematografiche con i vari Paesi balcanici e, politicamente, caldeggia da sempre la richiesta dell’Albania di entrare a fare parte della Unione Europea.
La rassegna si è aperta con “Honeyland”, un bel film-documentario del 2019 di Tamara Kotevska e Ljubomir Stefanov, della Macedonia del Nord, regione montuosa e territorio a rischio sismico. Oltre che dai Macedoni è popolata da Albanesi, Turchi, Valacchi, Rom, Serbi e molti altri – tanto che un cuoco spiritoso chiamò macedonia l’insalata di frutta mista che tutti conosciamo.
Il film è stato premiato al Sundance Film Festival con ben tre premi e è stato candidato agli Oscar 2020 sia come miglior documentario sia come migliore film straniero. Viene rappresentata la vita di Hatidze Muratova, un’apicultrice che usa un metodo ecologico nel coltivare le api e produrre il miele. «Bisogna lasciarne sempre metà a loro…» ripete la protagonista togliendo il nido d’ape e facendo attenzione alle esigenze degli animali.
I registi Tamara Kotevska e Ljubomir Stefanov, hanno una particolare sensibilità visiva, mostrano panorami strepitosi, colori intensi e riescono a rendere gentile e quasi elegante la protagonista, una donna brutta e molto povera, senza denti davanti e con la pelle rovinata dal sole, ma sempre di buon umore.
Belle sono tutte le sequenze con le api e belli i dialoghi con la madre ottantacinquenne – malata e costretta a letto da tre anni – che Hatidze accudisce amorevolmente. Le due vivono in una casupola senza luce elettrica, né acqua corrente, né gas ma Hatidze fa fronte a tutte le mancanze con grande forza ed esperienza. La madre si rende conto di essere un peso per la figlia che potrebbe andare via da lì, da quella terra dura e ostile, e, secondo lei, potrebbe addirittura sposarsi.
Per vivere Hatidze coltiva, appunto, le api senza né guanti né reti, cantando una canzone che sembra tenerle tranquille. Ogni tanto si reca in città per vendere il suo miele al mercato a 10 euro al chilo, così può comprare le banane per la madre e preparare l’ayran, una bevanda a base di yogurt, acqua e sale, originaria delle genti turco-altaiche. Per se stessa compra la tintura color nocciola per i capelli: l’unico vezzo che si concede.
Un giorno arrivano e si insediano lì vicino una coppia nomade turca – Hussein Sam e sua moglie – con 7 bambini e una mandria di mucche. All’inizio Hatidze è contenta perché non è più sola, gioca con i bambini e fa amicizia con uno in particolare; poi man mano il capo-famiglia autoritario e cialtrone si improvvisa anche lui apicultore, con avidità e poco rispetto per la natura. Tanto farà, non ascoltando i suoi consigli, che rovinerà la produzione di Hatidze e farà morire le api.
Degne di nota sono le scene che ritraggono i rumorosi e talvolta violenti rapporti familiari. La moglie, di notevole stazza, aiuta il marito nei lavori pesanti, così come anche i vari figli.
Ad un certo punto così come sono apparsi, tutti i membri della famiglia se ne andranno con la roulotte e le mucche a carico, lasciando Hatidze sollevata, ma sempre più sola. Alla fine ritroverà in sé le energie per ricominciare tutto da capo.
Sono rimasta impressionata dalle scene di lavoro campestre per vari motivi. Sembra impossibile vedere che ancora oggi si lavori nella campagna in questo modo artigianale, faticoso e rischioso, è triste, inoltre, constatare lo sfruttamento del lavoro minorile e che bambini così piccoli, da non farcela a sollevare un vitello morto, riescano invece ad aiutare una mucca a partorire.
Il Festival del Cinema Balcanico ha continuato proiettando tutti film di qualità, di cui varie registe donne, tanto per citarne un paio: “Breasts” di Marija Perović, 2018 (Montenegro, Croazia, Serbia) e “Erased”, film di Miha Mazzini e Dusan Joksimovic, 2018 (Slovenia, Croazia, Serbia). La rassegna ha previsto, inoltre, un fuori programma cioè la proiezione de “Il Generale dell’Armata Morta” di Luciano Tovoli, (coproduzione italo-francese del 1984) seguita da un incontro con il regista. Infine un evento speciale in memoria di Gjergj Xhuvani: è stato proiettato il suo ultimo film, “My Lake” (coproduzione di Albania, Croazia, Kosovo, Macedonia del Nord) e si è chiuso con una riflessione sul tema “Cinema e società nei Balcani”.”

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