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Microcritiche / Se i bambini raccontano la cattiveria urbana

14 Luglio 2020
di Ghisi Grütter

FAVOLACCE – Film di Damiano e Fabio D’Innocenzo. Con Elio Germano, Barbara Chichiarelli, Gabriel Montesi, Max Malatesta, Ileana D’Ambra, Lino Musella, Barbara Ronchi, Tommaso Di Cola, Giulietta Rebeggiani, Justin Korovkin, Giulia Melillo, Italia 2020 –

Favolacce” è uno squarcio di mondo della periferia sud romana con tipologie diverse dell’abitare, viste con gli occhi dei bambini. Una sorta di “Peanuts” dove il milieu però è ben diverso da quello della tranquilla middle class americana narrata da Charles M.Schulz.
Raccontato in prima persona da Dennis (con la voce di Max Tortora) un ragazzino che apparentemente ha solo 11 o 12 anni, “Favolacce” evidenzia il disagio dei giovani nei diversi rapporti con i genitori in quel tipo di famiglie. Dalla villetta bifamiliare dove Dennis (Tommaso Di Cola), vive con la sorella e la madre, mentre l’aggressivo e frustrato padre (un bravissimo Elio Germano) gonfia una piscina di gomma nel giardino, alla baracca prefabbricata nel verde dove vive Geremia (Justin Kurovnin) con suo padre Amelio (Gabriel Montesi). Lì vicino, sempre a Spinaceto, abita una loro amica, Viola (Giulia Melillo), che ha qualche difficoltà di apprendimento e anche, una ragazza incinta in attesa del fidanzato.
La scuola unifica ma solo apparentemente: per i bambini è il luogo di socializzazione, ma senza essere livellati.
Lo spazio architettonico di una città è spesso considerato nella sua accezione di macrocosmo organizzato che rappresenta il territorio su cui insiste, un vasto sistema di segni e forme che dà vita ad un tessuto connettivo riconoscibile e riproducibile. Questo quartiere di periferia, invece, è un microcosmo che non riesce a unificare le esperienze, dilata le percezioni di chi vi risiede e non diventa mai uno spazio misurabile e vivibile, ma solo un luogo d’incontro/scontro delle esperienze quotidiane.
La vicenda narrata coralmente si svolge durante tutta un’estate romana, tra la chiusura della scuola e la sua riapertura. Sotto un’apparenza di vita usuale si celano ipocrisie, rivalità e invidie, ed esistenze che vanno avanti per forza d’inerzia.
Così come era stato per “La terra dell’abbastanza” le persone che vivono in queste zone non sono né buone né cattive, sono persone primarie che vivacchiano così il quotidiano, senza ideali né valori etici. Il film appare mono-tono nel senso che qualsiasi cosa succeda, dall’azione giornaliera ripetuta alla tragedia inaspettata, viene vissuta sempre con la stessa gradazione.
Questo cinema di realismo allucinato può essere considerato uno spietato ritratto anti-narrativo in senso tradizionale, mentre sono le stesse immagini a essere pura narrazione, commentate dal sonoro delle assordanti cicale.
I fratelli D’Innocenzo, vincitori per la sceneggiatura dell’Orso d’argento al Festival di Berlino 2020 (già coautori anche della sceneggiatura di “Dogman”), in questo secondo lungometraggio da registi, usano un linguaggio visivo estremo di pasoliniana memoria – dai primissimi piani dei protagonisti, ai dettagli apparentemente insignificanti – e storpiano, talvolta, le immagini per farle apparire come incubi ad occhi aperti. Sono inoltre maestri del fuori campo, infatti nessuna violenza si consuma davanti agli occhi dello spettatore, talvolta è allusa, percepita nello sguardo inorridito del protagonista.

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