La parola emergenza ha assunto un significato negativo. Improvvisamente accade qualcosa di molto grave, di catastrofico: bisogna reagire con modalità adeguate, eccezionali (nel senso che rappresentano un’eccezione rispetto alla norma) e tempestive. Ma il termine vuole anche semplicemente dire che un evento si manifesta, emerge alla superficie, si offre al nostro sguardo. Potrebbe essere anche una cosa bella: un’alba per esempio. O un fenomeno sociale che annuncia comportamenti diversi dal solito e non malvagi o pericolosi.
Siamo comunque alle prese addirittura con uno “stato di emergenza”. Anche qui le parole possono alludere a cose diverse: stato per una condizione particolare e transitoria. Oppure viene in mente lo Stato, che si trasforma in una realtà stabilmente emergenziale: il pericolo per tutti giustifica decisioni autoritarie, prese solitariamente dall’esecutivo, quando non direttamente dal suo capo.
Sabino Cassese ha scritto sul Corriere della sera di domenica giudizi che mi sembrano definitivi. Non ha senso prolungare uno “stato d’emergenza” perché si prevedono ulteriori aggravamenti della situazione – nel caso, della pandemia da Covid-19. Se l’emergenza si manifesta, allora si decide. Ma il rischio di un “eccessivo accentramento di tutte le decisioni a Palazzo Chigi” sconsiglia di prolungare a dismisura lo “stato di emergenza”. Non solo perché l’accentramento è “pericoloso” per ogni sistema politico – dice sempre Cassese – ma anche perché spesso “crea colli di bottiglia e rallenta i processi di decisione”. Finisce quindi per negare le stesse ragioni della sua proclamazione.
Insomma: l’eccezione non può diventare regola.
Argomenti che forse stanno inducendo qualche riflessione nelle stanze del governo e nella testa del presidente del Consiglio, che sembra sempre più preso da sé stesso e dal ruolo preminente che il virus – birichino! – gli ha assegnato.
Per ora il risultato è che si parla di uno “stato di emergenza” a fisarmonica. Non più da rinnovare fino alla fine dell’anno. Ma, probabilmente, al 31 ottobre. Tre mesi invece di 5. E perché non uno, o due, tre, quattro?…
Vedremo dove porterà il tipico dibattito all’italiana, ascoltando intanto che cosa dirà oggi il ministro della salute Speranza, il quale – va detto – è apparso negli ultimi giorni assai ragionevole. Per esempio affermando di voler puntare, rispetto all’obbligatorietà di certe norme di tutela della salute pubblica, come la somministrazione di vaccini, più sulla fiducia verso il buonsenso e la collaborazione dei cittadini che su regole punitive.
Un punto che resta in ombra dietro questo tipo di discussioni è il nesso che esiste – o meglio sembra esistere assai poco – tra il momento della decisione e la formazione di una opinione informata che possa sostenere o meno quella decisione, e soprattutto renderla operativa, efficace. Nel caso che sia condivisa. Oppure bloccarla, nel caso contrario.
Il politologo Colin Crouch, inventore del concetto di “postdemocrazia”, interrogato sulla Lettura da Maurizio Ferrera, propone di scegliere in modo casuale, ma rispettando equilibri sociali, “giurie” di cittadini che discutano con esperti, politici ecc. di orientamento diverso, su questioni di rilevanza pubblica, e forniscano poi un “parere informato”.
Forse si può pensare anche a qualcosa di meglio.
Certo finora, nonostante tutto l’armamentario tecnologico di cui disponiamo, non è stato fatto nulla se non riprodurre i soliti talk-show in tv in cui i conduttori di turno per lo più incitano al litigio esperti e politici – quasi sempre gli stessi – mentre ai cittadini spettatori resta il potere supremo di cambiare canale.