Pubblicato sul manifesto il 26 maggio 2020 –
Chissà se avremo la perseveranza di riflettere ancora sulle conseguenze mentali, affettive e comportamentali della pandemia. Sperando di non esserci costretti da una recrudescenza del virus e nuove forme di reclusione forzata.
Già la fine delle più severe restrizioni ci getta in uno stato confuso e ansioso. Vorremmo correre all’aperto, respirare a pieni polmoni, abbracciare parenti e amici, tuffarci nell’acqua del mare ancora fresca e goderci il sole sulla sabbia. Però non proprio tutto è permesso, e più che le impenetrabili norme sempre cangianti ci opprime un senso vago ma insistente di obbligazione morale. Siamo esortati alle vacanze “etiche”, cioè patriottiche: spendiamo a casa nostra, aiutiamoci tra noi. Col settimanale troviamo anche la mascherina tricolore.
E se volessi favorire i poveri Greci, con le loro belle isole, per quanto ora famose anche per le disgrazie che patiscono in alcune di esse coloro che fuggono da una qualche guerra o carestia?
Ma se è facile reagire con gusto anarcoide agli eccessi di retorica patriottarda, assai più arduo è ignorare quella voce bassa e continua che dal nostro interno ci sorveglia ora dopo ora: faccio bene a salire sull’autobus? Rischio di infettarmi se non metto sempre questi maledetti, orribili, introvabili guanti usa-e-getta? E soprattutto, se mi prendo il contagio poi lo trasmetterò alla vecchia nonna, a quella vicina di casa tanto impaurita, agli amici più cari?
Possiamo ora vagare tra la folla, più o meno assembrata, e divisa tra chi indossa o meno la mascherina, ma non vinciamo quella sensazione di solitudine accumulata nei due mesi e più alle nostre spalle. In fondo ci siamo anche un po’ affezionati.
Forse deriva da questa imprevista condizione la passione che ci è esplosa addosso di firmare ogni sorta di appelli. Ha fatto discutere – anche su questo giornale – quello che si è schierato a difesa del governo Conte contro malintenzionati “agguati”. Conversazioni animate, al telefono, su whatsapp, in qualche call.
Ma hai visto chi ha firmato?
Non ci potevo credere!
Persino Tizia, e Caio!!
Ebbè? L’ho firmato anch’io: non sono un fan di Conte, ma chi ci metteresti di meglio?
Ah, anch’io ho aderito, ma penso di aver fatto una ca….
Poi non sono mancati gli appelli contrapposti di chi chiede la regolarizzazione del sex-work, e chi invece lo vuole proibire nel modo più duro.
Molti appelli, firmati da donne ma anche da qualche maschio, contro l’esclusione femminile dalle molteplici task-force di nomina governativa. Ma anche appelli che non condividono queste passioni paritarie e non amano le quote rosa.
Si potrebbe pensare che si tratti di un tic italiota, magari indotto dalla debolezza e scarsa credibilità dei partiti politici (sai che c’è, io mi faccio il mio quasi-partito one issue, e me la cavo così… durerà una settimana ma sono soddisfatto, siamo in fondo tra tanti amici…).
Ma non è così. Gli appelli, con centinaia di firme “importanti”, sono arrivati anche dall’estero e in dimensione globale. Come quello che chiede più democrazia nell’organizzazione del lavoro.
Intendiamoci: molte buone cause (anche se talvolta opposte: ma è la differenza, è la dialettica, bellezza!). E il più che comprensibile desiderio di contare qualcosa nelle decisioni che si vorrebbero ottenere per migliorare un po’ il modo di vivere “normale” di cui il virus ha messo in luce formidabili magagne.
Temo però un equivoco. Non basta apporre una firma, né per vincere la solitudine personale, né per produrre la forza necessaria a cambiare davvero qualcosa. Ancora peggio se cedessimo inavvertitamente a nostalgie e fantasie di un “collettivo” che dobbiamo ancora reinventare.