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In una parola / E del virus non parlo più

18 Marzo 2020
di Alberto Leiss

Pubblicato sul manifesto il 17 marzo 2020 –

“Sono più di 10 giorni che ho deciso di non parlare del coronavirus, in parte perché sono uno snob e non parlo di cose di cui parlano tutti. Non c’è italiano che non abbia detto la sua sul coronavirus. E poi perché, tutto sommato, c’è una tale abbondanza di comunicazioni, giornali, televisioni… È difficile aggiungere altro. La mattina si vedono le prime 12 pagine dei grandi quotidiani che parlano di questo. Io che dico? Sto zitto”.
Mi piacerebbe averlo detto io, invece è stato l’inventore del Censis, Giuseppe De Rita, in una lunga intervista apparsa sul settimanale che trovo in edicola (benedette edicole aperte!) a Mentana, Tiburno, scritta da CinziaD’Agostino. Questo periodico, fondato una trentina di anni fa da una donna recentemente scomparsa, Rosanna Tempestini, pare che avesse tra gli ispiratori proprio il noto sociologo. E d’altra parte fornire un servizio di minuta informazione locale in una larga area del nord est della provincia romana è qualcosa che risponde bene alla visione della società su cui il Censis insiste da oltre mezzo secolo.
Questa dichiarazione “snob” circa il silenzio su un tema che ci angoscia tutti mi pare alluda al fatto che nelle situazioni di emergenza e di allarme bisognerebbe pesare con molta maggiore attenzione il significato vero delle parole che si pronunciano. Questione che affronta sul Corriere della sera di ieri Gian Antonio Stella in un commento intitolato appunto Addio alle parole impazzite, torna la voglia delle parole vere.
Gli italiani – osserva il giornalista del Corriere – hanno bisogno di chiarezza, vogliono capire, devono capire. Quindi soprattutto chi ha responsabilità pubbliche, politico o scienziato che sia, dovrebbe stare davvero molto attento quando apre bocca o twitta compulsivamente il suo pensiero. Molto vero.
D’altra parte De Rita, nell’intervista citata, dice che l’incertezza e l’inquietudine possono essere difficilmente evitate, e che anzi possono anche funzionare da stimolo per comprendere ciò che viviamo e agire di conseguenza. Specialmente in una società come quella italiana che a suo parere ha smarrito la capacità di provare un vero desiderio, è da tempo bloccata, e che “rifiuta la relazione”. Proprio perché diseducata da un troppo lungo periodo in cui il discorso pubblico è cresciuto all’insegna del “vaffa”, e altri modi consimili di svilire il linguaggio e il rapporto con gli altri.
Ma come si fa a riconquistare la capacità di pronunciare “parole vere”?
Il papà del Censis ricorda il bel film di De Sica e Zavattini Miracolo a Milano che nel difficilissimo dopoguerra italiano evocava un mondo in cui dire “buongiorno” significasse davvero augurare e augurarsi una buona giornata. E magari fare qualcosa perché il tempo effettivamente migliorasse.
Nel suo commento Gian Antonio Stella cita le parole del Papa, secondo il quale la “fecondità” delle parole “è legata a una condivisione della vita; è proporzionale alla disponibilità con cui accettiamo di lasciarci interrogare e coinvolgere dalla realtà, dalle situazioni e dalla storia delle persone”.
Cose relativamente facili da dire, ma certamente non semplici da agire, specialmente in una condizione di paure che si moltiplicano non senza basi molto concrete.
Eppure proprio questo sorprendente Francesco ce ne ha dato una prova. Non un film d’autore, ma le immagini della sua passeggiata solitaria, con una andatura che in qualche attimo sembrava incerta e affaticata, nel centro deserto di Roma, per raggiungere una Chiesa in cui pregare per tutti.
Non ho la grazia della fede, ma in quel gesto silenzioso e carico di umanità ho riconosciuto un sincero “buongiorno”, e l’ho sentito rivolto anche a me.

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