Pubblicato sul manifesto il 3 febbraio 2020 –
Sarà per l’età che avanza, ma sono sempre più insofferente delle continue sollecitazioni agli “aggiornamenti” che riceviamo dalle oscure intelligenze artificiali che ci spiano dai nostri device. Quando cedo alle insistenze, magari obbligato dal fatto che alcune operazioni non sono più possibili se non si “aggiorna” il sistema operativo, ci si dota della tale App, o altre diavolerie digitali, in genere me ne pento. Le novità non mi sembrano sempre migliori delle antichità, anzi spesso le cose si complicano inutilmente, e si avverte il tentativo di farci comprare qualcosa di cui non sentivamo alcun bisogno.
Certo, ora siamo indotti a aggiornarci anche sulle evoluzioni del coronavirus. Novità assai sgradevole.
Per fortuna a Roma si può ancora andare al cinema, a teatro, così sabato scorso mi sono preso la libertà e il gusto di “aggiornarmi” su qualcosa che appartiene a un passato remoto, eppure ci parla come bellissima novità. È la musica di Clara Wieck Schumann, che grazie all’impegno di molte musiciste, e anche grazie al bicentenario della nascita appena trascorso, comincia a entrare un po’ più frequentemente nei programmi di sala.
Nell’aula dei concerti alla Scuola di musica popolare del Testaccio i suoi sei lieder dell’op.13 sono stati eseguiti al pianoforte da Stefano Diotallevi e al clarinetto da Paolo Montin. Erano incastonati tra i tre Fantasiestüke op.73 di Robert Schumann e la sonata op. 120 n.1 di Brahms. Al celebre “triangolo” della musica e della sensibilità romantica era intitolato il concerto: “Robert, Clara, Johannes”. Il primo di una serie che la scuola di Testaccio dedica alla musica classica: ogni sabato alle 18 fino al 28 marzo (ogni domenica invece, fino al 5 aprile, musica jazz, stessi ora e luogo) con un programma di opere sia romantiche, sia barocche, sia contemporanee. E arricchito dall’invito rivolto dal curatore, Francesco Maschio, agli interpreti di aggiungere qualche parola di spiegazione sulle loro scelte.
Così Diotallevi ha attirato l’attenzione su alcune squisite arditezze armoniche nei lieder di Clara, peraltro caratterizzati da melodie “cantabili” e toccanti. Per esempio l’accordo con cui attacca l’ultimo dei lied (per i cultori, una settima mischiata, per così dire, con due diminuite, che risolve nella settima di mi bemolle), procedimento comune nel jazz o in Stravinskij, utilizzato anche dai romantici, ma certo non comunemente in apertura di un pezzo.
Molto ci sarebbe da dire anche sulle altre bellissime composizioni di Robert e di Johannes. Così come sulla storia delle relazioni del tutto particolari, umane e artistiche, che Clara intrattenne col marito, morto in preda a gravi disturbi psichici proprio negli anni in cui entrava nella vita della coppia il più giovane e geniale Johannes. Il legame tra Clara e Brahms, su cui molto si è scritto e che ha ispirato film e romanzi, non dovrebbe oscurare il fatto che anche per Robert l’apparizione del giovane compositore e pianista e della sua musica fu una sorta di “colpo di fulmine”.
Nel corso del concerto è stato anche detto, citando il libro di Nicolas Cavailles sugli otto figli degli Schumann, che le storie per lo più tragiche e sfortunate di queste ragazze e ragazzi, sarebbero anche il frutto di una “madre anafettiva”. Sarà vero, ma mi è suonato poco gentile. Scorrendo i diari e le lettere di Clara si apprende che a occuparsi dei figli e della gestione economica e domestica della famiglia, prima, durante e dopo la tragedia della malattia del marito, fu lei. Dava concerti per guadagnare, e certo anche per una travolgente passione artistica. Vorrei aggiornarmi meglio prima di considerarla una colpa.