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Microcritiche / In cerca dell’assassino (tra né buoni né cattivi)

23 Febbraio 2020
di Ghisi Grütter

MEMORIE DI UN ASSASSINO – Film di Bong Joo-ho. Con Song Kang-ho, Kim Sang-kyung, Kim Roe-ha, Song Jae-ho, Hie-bong Byeon, Seo-hie Ko, Corea del Sud 2003 –

Il regista Bong Joo-ho è reduce da una incredibile vittoria agli Oscar 2020. Con “Parasite” ha ottenuto, infatti, quattro statuette: miglior film straniero, migliore regia, migliore sceneggiatura e miglior film internazionale. Per la prima volta nella storia degli Awards è stato premiato un film non di lingua inglese.
Il regista aveva già girato il suo secondo lungometraggio “Memorie di un assassino” del 2003 insieme al famoso attore coreano Song Kang-ho (che in “Parasite” interpreta il padre della famiglia povera). Mai proiettato in Italia: l’hanno fatto uscire nelle sale cinematografiche proprio in questi giorni.
Memorie di un assassino” è un ottimo film, drammatico, ironico, divertente e a mio avviso – e non solo mio – ancora più bello di “Parasite”. È sicuramente meno costruito appositamente per fare effetto o per aderire esplicitamente a una posizione politica. È tratto da una pièce teatrale scritta da Kwang-lim Kim che, a sua volta, si è ispirato a un capitolo di cronaca nera realmente avvenuta tra il 1986 e il 1991.
Siamo durante gli anni del regime militare di Chun Doo-hwan nel 1986, in un piccolo villaggio nella provincia del Gyeonggi, dove due investigatori, Park Doo-man (interpretato da Song Kang-ho) e Cho Yong-koo (interpretato da Kim Roe-ha), sono sulle tracce di un serial killer che uccide delle giovani donne.
I metodi usati dai poliziotti sono piuttosto ruvidi, arrivano a torturare di volta in volta un sospetto malcapitato che alla fine confesserà, anche se innocente. Date le difficoltà del caso, da Seul arriva il giovane detective Seo Tae-yoon (interpretato da Kim Sang-kyung), più istruito degli investigatori di provincia e dai metodi più razionali. Dotato di un notevole intuito logico, si contrappone ai modi rozzi degli altri due. In tal modo, smontate le accuse e le false confessioni, i tre iniziano a collaborare obtorto collo, così come ordinato dal Sergente capo di Polizia Shin Dong-chul (interpretato da Song Jae-ho).
Il film è quindi confezionato come un perfetto thriller e il regista inserisce tutti gli ingredienti classici per costruire una notevole suspense. Gli indizi portano a identificare gli elementi costanti e i momenti in cui avvengono omicidi: avvengono tutti durante la sera, mentre cade la pioggia, la donna ha addosso sempre qualcosa di rosso e la radio suona una certa particolare canzone, così come richiesto da un ascoltatore. Scene di ricerca dell’assassino, di scoperte e interrogatori si alternano a quelle di inseguimenti e di agguati in cui il volto del killer non è mai svelato.
Liberato il primo sospettato, cioè un giovane ritardato con una guancia bruciata, viene individuato un altro ipotetico colpevole: il ragazzo che aveva richiesto di ascoltare quella particolare canzone alla radio. Ma stavolta il giovane è un ex militare che vive lì da un anno – esattamente da quando sono iniziati gli omicidi – e non è propenso a confessare. Che fare? Si è riscontrato un campione di sperma sul vestito di una delle vittime ma, non essendoci ancora la possibilità del test in Corea, lo si invia negli Stati Uniti, assieme a un campione del sospettato. Ciò dovrebbe tagliare la testa a ogni dubbio e costituire la prova decisiva.
In attesa dei risultati del test, gli investigatori lo tengono sotto controllo. Ma i tre detective sono in continuo conflitto tra loro e spesso – tra il grottesco e la commedia – litigano proprio quando sembrano essere vicinissimi alla soluzione del caso. Tipici sono i siparietti con lo sbirro di campagna versus lo sbirro di città, come un classico dei film di genere, primi fra tutti quelli di David Fincher (“Zodiac” del 2007 o “Seven” del 1995.)
Non voglio rivelare di più della trama per non fare spoiler di questo film che presenta un finale amaro ma significativo. Straordinaria è l’interpretazione di Song Kang-ho che apre e chiude il film, diciassette anni dopo gli assassini.
In questo lungometraggio Bong Joon-ho ha usato un fatto di cronaca per creare un dipinto variegato sulla razza umana, sulle sue perversioni e sulla sua diffusa tendenza alla violenza. «Hai visto la faccia di quel signore? Mi dici com’era?» chiede Park Doo-man a una bambina, che così risponde: «Non so… era una faccia comune. Insomma… una faccia normale».
Il paesaggio rappresentato è quello rurale dove però è inserita l’industria, così come mostrato anche in “Burning” del 2018 da Lee Chang-dong, un altro regista coreano impegnato che è stato anche Ministro della cultura.
Quello che Bong Joo-ho rappresenta è un paese che marcia a fatica verso il benessere, sullo sfondo c’è il regime agli sgoccioli, gli abusi ai detenuti, le proteste studentesche a Suwon e le manifestazioni che catalizzano tutti gli sforzi militari.
I colori della pellicola sono quelli del grano, le tinte luminose della campagna si contrappongono al grigiore e allo squallore degli edifici, della stazione fatiscente di polizia, della scuola, della fabbrica, degli interni delle abitazioni.

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